• Dangerous frontiers: adaptation
  • Frontiere pericolose: l’adattamento
  • Volpe, Sandro

Description

  • Discourses on adaptation revolve incessantly around a succession of deep-rooted clichés: at opposite ends the imaginary illusions of disappointed readers and the programmatic indifference of hardened film lovers. Theory should tenaciously oppose itself to common sense, but it's been bogged down in jargon and self-references: experts read each other's works, they position and reposition themselves, modify and revise their taxonomical grids, almost always triadic, engaged in endlessly redefining the continuum that goes from fidelity to originality. They simply ask that each adaptation fit into related compartments. With the only purpose of finding their bearings. But their terminology almost always reflects the same concern: an obsession with translatability. Doggedly formalizing a concept based on a wrong premise: because an adaptation is not a translation, it's an interpretation. Or, better, it isn't only an interpretation but certainly implies one. Of all the misunderstandings this is the most dangerous one because it doesn't have the alibi of ingenuousness. The whole exhausting debate on fidelity, even in its most recent declensions, falls through when the erroneousness of the premise is uncovered. If it's legitimate to judge a translation based on the principle of fidelity, this becomes entirely devoid of relevance when one considers an adaptation as something new, a re-writing of a text, its continuation, its variation. While a translation seeks refuge in the comfortable territories of similarity, an adaptation – a good adaptation – must push further, dare in diversity. Departing from a text means setting off, travelling, crossing a frontier to land elsewhere. And sometimes, as Truffaut wished, doing «something different, and better».
  • I discorsi sull’adattamento ruotano incessantemente intorno a una serie di inossidabili luoghi comuni: ai poli estremi le illusioni fantastiche dei lettori delusi e la programmatica indifferenza dei cinefili irriducibili. La teoria dovrebbe opporsi tenacemente al senso comune ma si è impantanata nel gergo e nell’autoreferenzialità: gli studiosi si leggono tra loro, si posizionano e riposizionano, modificano e aggiornano le loro griglie tassonomiche – quasi sempre triadiche – impegnati a ridefinire all’infinito il continuum che va dalla fedeltà all’originalità. Ai singoli adattamenti chiedono solo la gentilezza di accomodarsi nei relativi scomparti. E poco male se tutto ciò serve solo per orientarsi. Ma la loro terminologia riflette quasi sempre la stessa preoccupazione: l’ossessione della traducibilità. Formalizzando con accanimento un nucleo che nasce da una premessa errata: perché l’adattamento non è una traduzione, è un’interpretazione. O, per meglio dire, non è solo un’interpretazione ma certamente ne implica una. Di tutti gli equivoci questo è il più pericoloso, perché non ha l’alibi dell’ingenuità. Tutto l’estenuante dibattito sulla fedeltà, anche nelle sue più recenti riproposizioni, viene meno laddove si riconosca appunto l’erroneità della premessa. Se è legittimo giudicare una traduzione con il metro della fedeltà, è totalmente privo di pertinenza quando si riconosce l’adattamento come qualcosa di nuovo, una riscrittura di un testo, una sua continuazione, una sua variazione. Se la traduzione cerca riparo nei confortevoli territori della somiglianza, l’adattamento – un buon adattamento – deve spingersi oltre, osare sul terreno della diversità. Partire da un testo significa ripartire, viaggiare, attraversare una frontiera per approdare altrove. E qualche volta, come auspicava Truffaut, fare «un’altra cosa, migliore».

Date

  • 2012-07-05

Type

  • info:eu-repo/semantics/article
  • info:eu-repo/semantics/publishedVersion
  • peer-reviewed Article

Format

  • application/pdf

Identifier

Relations