• I giudizi speciali nel sistema del processo penale de societate
  • Guido, Elisabetta

Subject

  • Processo agli enti
  • Procedimenti speciali
  • SCIENZE PENALISTICHE
  • IUS/16 DIRITTO PROCESSUALE PENALE

Description

  • 2007/2008
  • Lo studio dei procedimenti speciali nel sistema della responsabilità amministrativa derivante da reato, introdotta nell’ordinamento italiano con il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ha preso le mosse dalla scelta operata dal legislatore di prediligere il processo penale quale paradigma di accertamento dell’illecito dell’ente. Si è anzitutto evidenziato, anche attraverso il raffronto con altre esperienze, europee ed extra europee, che l’assegnazione al giudice penale della decisione su una res iudicanda amministrativa rappresenta una soluzione fortemente innovativa, tant’è che nessun parallelismo potrebbe instaurarsi tra tale cognizione e l’accertamento amministrativo richiesto dalla legge di depenalizzazione e modifiche del sistema penale (art. 24 l. 24 novembre 1981, n. 698). Lasciando a latere la questione della natura della responsabilità dell’ente – se si tratti, cioè, al di là dell’etichetta, di responsabilità amministrativa, penale o di altro genere – e precisato che l’importazione del modello processuale penale implica l’estensione alla persona giuridica dell’impianto garantistico offerto alla persona fisica, sono state passate in rassegna le cause di tale originale combinazione. A parte la valenza politica che l’attrazione dell’illecito della societas all’interno del processo penale reca con sé in termini di riprovevolezza del crimine d’impresa, è l’esistenza di un reato, primo tassello del mosaico raffigurante la complessa fattispecie dell’illecito amministrativo, a legittimare la devoluzione della vicenda dell’ente alla giurisdizione penale anziché all’autorità amministrativa, unitamente a ragioni di garanzia ed efficienza. Proprio in relazione a questi ultimi parametri emerge la pertinenza della previsione di giudizi speciali nel rito de societate; scelta, che avrebbe nondimeno potuto essere ostracizzata, data la mancata attenzione del legislatore delegante verso questa materia e in presenza dell’indicazione che ancorava la riduzione della sanzione amministrativa a situazioni di particolare tenuità del fatto (art. 11 comma 1 lett. g l. n. 300 del 2000) ovvero all’adozione da parte dell’ente di comportamenti di reintegrazione dell’offesa (art. 11 comma 1 lett. n l. n. 300 del 2000). Sul versante dell’efficienza, è nota la genetica finalizzazione dei riti speciali alla celere definizione dei carichi giudiziari, obiettivo imposto dal canone costituzionale della ragionevole durata dei processi (art. 111 comma 2 Cost.). Tale esigenza deflativa viene avvertita anche nel processo all’ente poiché il modello di accertamento confezionato per l’illecito dell’ente ricalca quello previsto per il reato, impostato cioè sulla classica successione fatta di indagini preliminari, udienza preliminare e dibattimento, di talché presenta le stesse ricadute che l’acquisizione della prova in contraddittorio comporta sui tempi processuali. Inoltre, occorre sottolineare che la scelta di procedere contestualmente per il reato nei confronti della persona fisica e per l’illecito nei riguardi della persona giuridica (art. 38 comma 1), seppur giustificata dal presupposto di pregiudizialità esistente tra illecito penale e illecito amministrativo, duplica l’attività processuale con conseguenti rallentamenti sul funzionamento della macchina giudiziaria. Si è, quindi, appuntato che, se alla base dell’inserimento dei riti speciali nel processo all’ente vi sono giustificazioni di economia processuale, nessuna valida ragione, a fronte dell’esigenza di coerenza sistematica, può sussistere nel ritenere inammissibili il giudizio immediato e il giudizio direttissimo, i quali non figurano nel decreto giacché il legislatore non ha ritenuto di dover dettare un’apposita disciplina. A ciò si aggiunga che l’efficienza processuale si salda con l’effettività della sanzione, obiettivo caldeggiato dal legislatore delegante (art. 11 comma 1 lett. f l. n. 300 del 2000), in cui risultano assorbiti scopi di prevenzione generale e speciale; quest’ultimo, peraltro, risulta predominante nel sistema della responsabilità amministrativa da reato, in cui tanto le sanzioni quanto, e impropriamente, il processo partecipano della finalità di recupero dell’ente alla legalità. In relazione all’aspetto garantistico, si è sottolineato come sia la legge a suggerire che anche all’ente vengano assicurati i benefici derivanti da scelte processuali alternative, laddove prevede il riconoscimento al soggetto collettivo degli stessi diritti e delle medesime facoltà spettanti all’imputato (art. 35); vantaggi, da reputare compatibili con la natura astratta del presunto responsabile amministrativo. Vero è che la praticabilità di soluzioni alternative all’ordinario iter processuale, tanto nel procedimento relativo al reato quanto in quello riguardante l’illecito amministrativo, determina la separazione delle regiudicande, fenomeno che ha comportato la trattazione delle conseguenze che tale divaricazione produce sul simultaneus processus (art. 38). In particolare, si è parlato dell’incompatibilità del giudice della responsabilità amministrativa a decidere in ordine al reato della persona fisica, e viceversa; si è, poi, affrontato il tema dell’acquisizione della sentenza irrevocabile emessa nei confronti dell’ente o dell’imputato, nel procedimento dell’altro (art. 238-bis c.p.p.), con la precisazione che esula da tale meccanismo acquisitivo la sentenza di patteggiamento, sia essa applicativa della pena all’imputato o della sanzione all’ente, poiché carente sotto il profilo dell’accertamento di responsabilità e, quindi, inidonea ad influire sulla decisione da assumere nell’altro procedimento. A seguire, sempre gravitando sul tema della circolazione probatoria, si è visto come sia recuperabile nel processo all’ente, seppur con qualche aggiustamento, la norma di cui all’art. 238 c.p.p.; infine, l’attenzione si è focalizzata sulle regole che governano l’assunzione delle dichiarazioni dell’imputato del reato presupposto e del legale rappresentante dell’ente nel separato procedimento a carico, rispettivamente, del soggetto collettivo e della persona fisica; compito, questo, che ha messo in luce il problema della qualificazione penalistica del rapporto sussistente tra reato e illecito amministrativo. La seconda parte del lavoro è dedicata alla trattazione dei singoli procedimenti speciali, la cui disciplina è stata ricostruita tenendo presente gli aspetti peculiari di ciascun rito e rinviando – in subordine – alle disposizioni del codice di rito penale nonché alle relative norme di attuazione e coordinamento, in quanto compatibili (art. 34), al fine di colmare lacune e superare incongruenze. In sostanza, questo particolare approccio metodologico ha richiesto di stabilire, di volta in volta, quali norme codicistiche possano essere trasferite nel microsistema del processo agli enti. Tanto precisato, vale qui riportare le problematiche più significative emerse dall’analisi della materia che, a ben vedere, si concentrano soprattutto attorno ai riti deflativi del dibattimento, vale a dire il giudizio abbreviato (art. 62), l’applicazione della sanzione su richiesta delle parti (art. 63) e il procedimento per decreto (art. 64). Partendo dal primo, è il presupposto speciale negativo del rito, consistente nella preclusione al suo accesso quando per l’illecito amministrativo sia prevista l’applicazione di una sanzione interdittiva in via definitiva (art. 16), il punto su cui si sono addensate le maggiori perplessità. Seppure nobile è apparso il tentativo del legislatore di contemperare esigenze efficientistiche con obiettivi di specialprevenzione, non si è taciuta, per un verso, la disparità di trattamento in tal modo creata tra ente e imputato, per il quale non vigono limiti di ammissione al rito speciale in vista del tipo di pena da applicare; per altro verso, non sono mancate riserve circa l’ampia discrezionalità che deriva dal sistema di applicazione delle sanzioni interdittive perpetue, congegnato, ad eccezione del caso dell’impresa illecita (art. 16 comma 3), su una valutazione prognostica di irrecuperabilità dell’ente alla legalità, di intuibile precocità se agganciata al momento processuale deputato alla valutazione di ammissibilità del rito speciale. Altra questione degna di nota attiene alla possibilità per il soggetto collettivo dichiarato contumace, cioè a dire non costituitosi in giudizio secondo le formalità prescritte dall’art. 39 d. lgs. n. 231 del 2001, di richiedere il rito abbreviato. Di fronte a opinioni dottrinali divergenti, si è ritenuto di proporre una soluzione positiva, agganciandola alla previsione normativa che estende all’ente lo status processuale dell’imputato (art. 35); si è, infatti, osservato come rispetto a questa precisa indicazione non meritino accoglimento interpretazioni che considerano l’atto formale di costituzione (art. 39) presupposto necessario affinché l’ente possa esercitare il proprio diritto di difesa. Se, infatti, tale adempimento si profila doveroso per il compimento di atti che implicano la presenza dell’ente, naturalmente nella persona del suo legale rappresentante, resta superfluo per tutti quegli atti che tale materializzazione non richiedono. Ciò ha permesso di ritenere legittimato ad avanzare richiesta di giudizio abbreviato, come pure quella di patteggiamento, anche il difensore dell’ente, non costituitosi, purché munito di procura speciale. Si aggiunga, inoltre, che la scissione tra costituzione e diritto di difesa è, parimenti, alla base della ritenuta ammissibilità dell’opposizione al decreto di applicazione della sanzione pecuniaria dell’ente che abbia deciso di non partecipare attivamente al processo. Occorre, per inciso, sottolineare come la questione esposta si profili incerta anche a livello giurisprudenziale; non può quindi che auspicarsi un intervento chiarificatore che tenga nella giusta considerazione le esigenze di garanzia e di difesa dell’ente. Ulteriore aspetto che si è ritenuto di approfondire concerne il ruolo della parte civile nel rito abbreviato instaurato nei confronti dell’ente. Preso atto che l’ammissibilità della pretesa civilistica nel procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo conosce orientamenti difformi e, appurato che la soluzione negativa pare essere quella maggiormente convincente, si è voluto nondimeno precisare che laddove dovesse ammettersi la costituzione di parte civile contra societatem, al danneggiato da illecito amministrativo verrebbe riconosciuta la classica alternativa tra accettazione del rito – con il consueto limite in tema di diritto alla prova e l’efficacia extrapenale della sentenza di esclusione della responsabilità per insussistenza dell’illecito (art. 66) – e il trasferimento della domanda risarcitoria in sede civile. Passando all’istituto dell’applicazione della sanzione su richiesta delle parti (art. 63), si è innanzitutto proceduto ad esaminare i presupposti speciali del rito che si schiudono in tre diverse, e alternative, condizioni oggettive di accesso. Tra queste, non sono mancate riserve, per l’ampia discrezionalità implicata, circa il presupposto che àncora la praticabilità dell’accordo sulla sanzione alla “definibilità”, con patteggiamento, del procedimento per l’accertamento della responsabilità penale dell’autore del reato. In altri termini, al fine di valutare l’ammissibilità della richiesta dell’ente, il giudice dell’illecito amministrativo deve, fittiziamente sostituendosi a quello del reato, stabilire in via preliminare se la vicenda dell’imputato persona fisica si presti ad essere definita attraverso il concordato sulla pena. Tale momento non è, peraltro, l’unico a presentare connotati di discrezionalità, dovendosi tenere presente che essa ricorre anche in riferimento al limite all’accesso al rito, derivante dal fatto che si faccia luogo in concreto all’irrogazione di una sanzione interdittiva in via definitiva; decisione che viene rimessa al prudente apprezzamento del giudice. Rilevante è apparsa, anche per l’interesse che ha suscitato nella prassi, la questione relativa all’applicazione della sanzione della confisca del prezzo o del profitto dell’illecito da reato in sede di sentenza patteggiata. Si è ritenuto di fornire sul punto risposta positiva, alla luce del carattere indefettibile ed obbligatorio accordato a tale misura ablatoria dalla norma di cui all’art. 19, laddove il giudizio si concluda con sentenza di condanna. Tale riferimento, peraltro, non è stato ritenuto decisivo a supportare un approdo di segno opposto; senza entrare nella complessa tematica dell’identità della sentenza di patteggiamento, si è voluto ricordare il recente approccio esegetico delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., sez. un., 29 novembre 2005, Diop Oumar, in Cass. pen., 2006, p. 2769 ss.) secondo cui la clausola di equiparazione (art. 445 comma 1-bis c.p.p.) deve essere letta nel senso di ritenere la sentenza di patteggiamento siccome produttiva dei consueti effetti della condanna, salve le deroghe previste dalla legge. Pertanto, sulla scorta di tale assunto, si è sostenuto che se si fosse voluto escludere la confisca dalla decisione patteggiata lo si sarebbe dovuto esplicitare, restando il silenzio sintomatico della parificazione ad una pronuncia di condanna. Seguendo questa impostazione, si è ritenuta poco convincente l’ipotesi che sia incompatibile con il rito in esame l’applicazione della sanzione della pubblicazione della sentenza, solo per il fatto che essa venga riferita ad una pronuncia di condanna (art. 18). Tale misura stigmatizzante non rientrerebbe, infatti, tra le pene accessorie che, ex art. 445 comma 1 c.p.p., il patteggiamento preclude, poiché la classificazione tra pene principali e pene accessorie, cui la citata norma allude, risulta sconosciuta al sistema sanzionatorio delineato per le persone giuridiche. D’altro canto, proprio la peculiarità dello strumentario sanzionatorio ha richiesto di vagliare, di volta in volta, la compatibilità con il patteggiamento relativo all’ente dei premi che tradizionalmente afferiscono a questa alternativa processuale. Quanto al decreto di applicazione della sanzione pecuniaria, tra le varie problematiche affrontate, quella su cui si sono concentrati i maggiori dubbi interpretativi concerne la confisca. Esclusa, nel processo all’ente, l’operatività della norma secondo cui il giudice che pronuncia decreto penale di condanna dispone la confisca cosiddetta obbligatoria (art. 460 comma 2 c.p.p.), poiché essa è ivi misura di sicurezza, categoria non prevista nel sottosistema di riferimento, ci si è chiesti se trovi o meno applicazione la confisca sanzione (art. 19). Taluna dottrina ha ritenuto di fornire una risposta negativa, sostenendo che se venisse disposta si andrebbe incontro ad una soluzione affetta da illogicità, poiché, da un lato, la confisca è sanzione che deve sempre essere disposta, dall’altro, il decreto può pronunciarsi se deve essere irrogata unicamente la sanzione pecuniaria. Si è nondimeno, proposto un differente ragionamento, che porta, per contro, alla soluzione positiva. In prospettiva sistematica e meno agganciata al dato formale, si potrebbe ritenere che il limite della sanzione pecuniaria, quale presupposto del rito, non può intendersi come deroga alla norma che stabilisce l’indefettibilità della confisca in presenza di una sentenza di condanna; espressione suscettiva di lettura estensiva, così da ricomprendere anche il decreto che, in effetti, ha natura di sostanziale condanna. Al contrario, proprio il carattere imperativo della sanzione in oggetto risulterebbe dato utile ad interpretare il limite della sanzione pecuniaria siccome preclusivo della sanzione interdittiva e, a fortiori, di quella della pubblicazione della sentenza che ad essa accede. Così postulando, si verrebbe a ricostruire un parallelo, per un verso, con la logica codicistica che, con il presupposto della pena pecuniaria, intende escludere dall’ambito operativo del procedimento monitorio la pena detentiva e, per altro verso, con l’istituto dell’applicazione della sanzione all’ente che, come visto supra, pure è stato ritenuto compatibile con la confisca. Altra questione degna di essere segnalata afferisce all’operatività dell’effetto sospensivo (art. 463 c.p.p.) ed estensivo (art. 464 comma 5 c.p.p.) dell’opposizione nel processo cumulativo, quello cioè instaurato contemporaneamente per l’accertamento tanto della responsabilità amministrativa dell’ente quanto di quella penale della persona fisica, qualora, pronunciato decreto di condanna a carico di entrambi, solo uno di essi faccia opposizione. Premesso che la produzione dei suindicati effetti risulta ancorata alla situazione della commissione del medesimo reato da parte di più soggetti, la risposta dipende dal tipo di lettura che si vuole prediligere nel decifrare il rapporto sussistente tra reato e illecito amministrativo. Pertanto, ove si ritenga che la responsabilità dell’ente configuri un’ipotesi di concorso di persone nel reato, nessun ostacolo potrebbe esserci a che l’esecuzione del decreto opposto dall’ente, o dall’imputato, venga sospesa nei confronti del non opponente, con il conseguente verificarsi dell’effetto estensivo della pronuncia di proscioglimento. Viceversa, se si esclude il vincolo concorsuale poiché trattasi di illeciti diversi, il richiamato meccanismo non potrebbe funzionare, a meno che non si voglia adattare il dato letterale della norma codicistica attraverso una lettura estensiva che valorizzi il rapporto di pregiudizialità esistente tra i due illeciti, penale e amministrativo. Tale impostazione avrebbe il pregio di evitare che il rimedio della revisione – istituto che nel processo agli enti tende a favorire un’esigenza di omogeneità dei giudicati quando non sia stato possibile procedere unitariamente all’accertamento del reato e dell’illecito amministrativo che ne deriva (art. 73) – diventi strumento ordinario per risolvere l’eventualità del conflitto tra la pronuncia emessa nei riguardi dell’ente e quella relativa alla persona fisica. La terza parte del lavoro nasce dalla presa d’atto che i riti premiali non rappresentano le uniche occasioni difensive vantaggiose in termini di sollievo sanzionatorio. Si è così proceduto ad analizzare gli istituti processuali che, improntati alla logica specialpreventiva di neutralizzazione del rischio di commissione di futuri reati, propiziano l’attuazione da parte dell’ente delle condotte riparatorie previste dall’art. 17, vale a dire il risarcimento integrale del danno, l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato – ovvero un efficace impegno in tal senso –, la predisposizione di modelli organizzativi idonei a prevenire il rischio di commissione di reati all’interno dell’impresa e, infine, la messa a disposizione del profitto conseguito ai fini della confisca. La realizzazione di tali comportanti, suscettivi se allo stadio di semplice “promessa di attuazione” di provocare la sospensione della misura cautelare interdittiva (art. 49) oppure la sospensione del processo (art. 65), consentono alla persona giuridica incolpata di sfuggire dall’applicazione della sanzione interdittiva e di ottenere una riduzione della sanzione pecuniaria, in caso di condanna. Certo, un simile congegno, che sollecita l’ente ad attivarsi durante il processo per rimuovere le conseguenze dell’illecito amministrativo, prima di approdare ad un accertamento di responsabilità anche non definitivo, è anomalia che mal si concilia con il canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2 Cost.), la cui operatività non incontra, nonostante qualche perplessità manifestata al riguardo, limiti dovuti alla natura astratta della persona giuridica. Proprio il ruolo centrale assegnato all’impegno riparatorio onde neutralizzare gli effetti dei soli strumenti interdittivi (nell’immediato, se applicati in funzione cautelare, ex art. 9 e 45 comma 1, e in vista di futura condanna), con conseguente superfluità di tale impegno ove si prospetti l’applicazione della sola sanzione pecuniaria, nonché l’inversione dell’onere della prova che grava sull’ente (art. 6) – il quale deve provare l’insieme dei fatti impeditivi descritti in tale disposizione per andare esente da responsabilità – ha permesso di mettere in risalto la congenialità dei riti alternativi al sistema processuale pensato per gli enti; adattabilità, peraltro, favorita anche dalla peculiare disciplina della prescrizione dell’illecito amministrativo ex art. 22. Il congegno ivi formulato, di fatto improntato alla potenziale imprescrittibilità dell’illecito – poiché la contestazione dell’illecito interrompe la prescrizione, la quale «non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio» (comma 3) – fa sì che le garanzie processuali non possano essere strumentalizzate dal responsabile amministrativo al fine di differire la decisione finale onde sfruttare l’epilogo favorevole della prescrizione dell’illecito. Questa situazione, da sempre censurata dalla dottrina nel processo alla persona fisica siccome fonte di inefficienza processuale e ragione della scarsa capacità deflazionistica dei riti speciali, si presenta, nel contesto dell’accertamento della responsabilità amministrativa, come fattore incentivante la definizione del procedimento tramite percorsi semplificati. Siffatta congenialità, tuttavia, non è sfuggita ad un approccio critico, segnatamente laddove le difficoltà connesse alla dimostrazione di innocenza indurrebbero l’ente ad affrettare i tempi di un processo in cui la contestazione dell’addebito diventa sintomatica di una presunzione di illegalità dell’impresa. In altri termini, la presenza dei riti alternativi nel processo agli enti sembrerebbe superare le premesse logiche del relativo inserimento, cioè a dire esigenze di economia processuale e riconoscimento all’ente delle stesse opportunità difensive spettanti alla persona fisica in virtù dell’equiparazione voluta dall’art. 35 con l’imputato, per risolversi in occasioni di giustizia sommaria. E ciò striderebbe con le ragioni stesse della scelta del processo penale come sede di accertamento dell’illecito amministrativo; preferenza che si giustifica in quanto all’ente vengano riconosciute le fondamentali garanzie del diritto di difesa e della presunzione di non colpevolezza.
  • XXI Ciclo
  • 1978

Date

  • 2009-04-30T08:07:04Z
  • 2009-04-30T08:07:04Z
  • 2009-04-02

Type

  • Doctoral Thesis

Format

  • application/pdf

Identifier