• Trasformazioni geopolitiche e identità dell'Unione Europea
  • Ferruta, Ugo

Subject

  • Unione Europea
  • integrazione europea
  • identità europea
  • stati membri
  • stati nazionali
  • identità nazionale
  • sfera pubblica europea
  • comunicazione
  • confini dell'Europa
  • geometria variabile
  • European Union
  • European integration
  • European identity
  • SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE DELL'UOMO, DEL TERRITORIO E DELLA SOCIETA'
  • M-GGR/02 GEOGRAFIA ECONOMICO-POLITICA

Description

  • 2008/2009
  • La nuova pressione cui è sottoposta l’Europa dopo la fine del mondo bipolare e a seguito dell’accelerazione dei flussi commerciali e di informazione dell’economia non ha solo ridisegnato il ruolo e le funzioni dello Stato. Essa obbliga anche l’Unione europea a ridefinire la sua identità e, in un certo senso, ad uscire dagli equivoci sulla finalità della costruzione comunitaria. Il modello di integrazione comunitario si trova ad affrontare un significativo banco di prova. Da un lato, infatti, è mutato il quadro di riferimento geopolitico e, con la fine della minaccia sovietica, è venuta meno una delle ragioni del sostegno incondizionato all’Ue da parte del suo più potente partner esterno, gli Stati Uniti, e delle ragioni che legavano indissolubilmente alcuni Stati membri, come la Germania, al progetto europeo. Dall’altro, l’intensità e la velocità degli scambi commerciali e dei flussi di informazione oltre i confini nazionali non sono più tratti distintivi della sola Europa, il che, se da un lato rende l’Unione un utile strumento per i suoi Stati membri, dall’altro rende oggi più difficile per i cittadini distinguere tra integrazione europea e globalizzazione e sviluppare un senso di appartenenza e lealtà nei confronti delle Istituzioni comunitarie. La ragion d’essere dell’Unione europea La fondazione delle Comunità europee ha segnato la pacificazione e la stabilizzazione di una regione contraddistinta dalla presenza di nazionalità e culture diverse in uno spazio tanto densamente popolato quanto scarso di risorse naturali in rapporto al fabbisogno e nel quale, vista anche la conformazione del territorio, l’intensità della circolazione delle merci, delle persone e delle idee era senza dubbio maggiore rispetto alle altre aree del mondo. La guerra fredda e la minaccia portata dal blocco orientale hanno senza dubbio creato dei presupposti favorevoli all’integrazione europea. Sin dal Recovery Act, infatti, gli Stati Uniti incentivarono gli europei a condividere le risorse messe a disposizione, in modo da vincere le storiche reciproche diffidenze ed è noto che uno dei padri fondatori dell’edificio comunitario, Jean Monnet, forte di un consolidato rapporto con Washington, innestò le proprie proposte su un terreno favorevole. Tuttavia, accettando di sottoporre ad istituzioni comuni la gestione di quelle che allora erano le principali fonti di energia e le materie prime dell’industria bellica (trattato della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio), e di eliminare tutti gli aiuti statali alle imprese nazionali che avrebbero potuto avvantaggiarle sul mercato interno (trattato della Comunità Economica Europea) gli Stati europei non siglarono semplicemente un trattato di pace o un’alleanza, ma rinunciarono alla gestione sovrana delle possibili risorse di offesa o aggressività reciproca. La rimozione alla radice delle cause dei conflitti attraverso la condivisione della sovranità nei settori che alimentano il potenziale aggressivo costituisce quindi la “formula” originale della costruzione europea. Deve osservarsi che i paesi fondatori erano spinti a questa scelta anche da interessi ben precisi. La necessità per la Germania di essere riammessa nel consesso delle nazioni democratiche e di poter utilizzare le proprie risorse naturali per la ricostruzione, la volontà della Francia di non sfinirsi per tentare di esercitare un controllo sul proprio vicino, del Benelux di non essere tagliato fuori, a detrimento dei propri porti, dall’integrazione dei due paesi, dell’Italia di agganciarsi al treno a sostegno della propria modernizzazione, costituirono valide motivazioni individuali anche a prescindere dalla condivisione di valori e dalla consapevolezza di un interesse comune. La nascita delle Comunità poggiò, comunque, su un diffuso consenso popolare, che però non sfociò mai in un vero e proprio sentimento identitario. Nella lenta transizione fino all’uscita dalla guerra fredda, il successo, soprattutto economico, delle Comunità europee, ha spinto altri nove stati ad agganciarsi alla costruzione, senza però che tutti ne condividessero profondamente le soluzioni di fondo. I timidi passi verso la costruzione di un’Europa dei cittadini si sono rivelati inadeguati di fronte alla rapida evoluzione dello scenario dopo la caduta del muro di Berlino ed al collasso del blocco orientale. La fine dell’equilibrio bipolare e la ridefinizione degli equilibri interni ed esterni all’Unione La fine dell’equilibrio bipolare e la riconversione delle economie pianificate in economie di mercato hanno prodotto una serie di trasformazioni che incidono sull’Europa. Il venir meno della cortina di ferro ha aperto, al confine orientale della Comunità, uno spazio relativamente vasto e meno densamente popolato, formato da Stati di piccola e media entità, transitoriamente o strutturalmente più deboli rispetto ai paesi dell’Europa occidentale. La Germania, riunificandosi, ha accresciuto il proprio peso demografico ed economico, disponendo di un PIL praticamente doppio rispetto a quello degli altri paesi maggiori dell’Unione. Inoltre, con la fine della guerra fredda e l’affievolimento della minaccia russa, è parzialmente venuta meno la sua necessità di ancorarsi politicamente ai suoi vicini occidentali. Le aree limitrofe dell’ex impero sovietico, a causa del vuoto di centri gravitazionali, si sono frammentate culturalmente e politicamente, iniziando fragili processi di nation-building e di ridefinizione delle loro politiche estere e di sicurezza. La crescente liberalizzazione del commercio e l’incremento produttivo dei paesi asiatici, la Cina in primo luogo, hanno posto l’economia dell’Europa occidentale di fronte alla necessità di una rapida riconversione e di un adeguamento del proprio sistema di welfare alla scarsità di risorse disponibili. Inoltre, anche sul piano del partenariato internazionale, l’Europa non può più considerarsi l’unico benefattore delle economie in via di sviluppo e, quindi, anche l’accesso privilegiato alle loro risorse naturali viene rimesso in discussione. La crescita demografica planetaria, il mancato sviluppo di molte aree del pianeta e la difficile riconversione di altre hanno creato imponenti flussi migratori, che si sono riversati, spesso sotto il controllo della criminalità organizzata, sull’Europa settentrionale, occidentale e meridionale, creando zone di marginalità e tensioni diffuse. Infine, lo sviluppo di centri economici e finanziari svincolati dal rapporto con il territorio retrostante e la differenziazione della velocità dei flussi commerciali e di informazione tra nodi principali e zone meno collegate del pianeta ha ampliato il divario tra lo stato sovrano come entità territoriale definita e la realtà dei sistemi economici moderni. Il maggiore polimorfismo geografico nell’ordine economico provoca una trasformazione anche dell’ordine politico, erodendo la sovranità dello Stato in corrispondenza dei punti di contatto significativi con il primo. L’autorappresentazione classica dell’Unione europea in termini di “unità nella diversità”, frutto, prevalentemente, di un approccio storico-culturale sottace la circostanza che il suddetto dualismo non è stato ricondotto, nella maggioranza dei casi, ad una sinergia virtuosa. Nell’ultimo decennio, soprattutto, la dinamica unità versus diversità ha condotto, di fatto, ad una sostanziale neutralizzazione reciproca tra la spinta all’integrazione e quella al particolarismo, da cui è conseguita la persistente incapacità dell’Europa, e di ciascuno dei suoi protagonisti, ad affrontare le sfide cruciali del mondo globalizzato. Da un lato, quindi, nei rapporti tra i paesi europei, si è assistito ad una sorta di “ritorno al futuro”, con il ricrearsi di equilibri ed atteggiamenti simili a quelli che avevano contraddistinto il periodo tra le due guerre mondiali. Dall’altro, la società europea appare fortemente frammentata e culturalmente meno omogenea, con aree di forte insicurezza sia al proprio interno che, soprattutto, ai propri confini. La riscoperta delle identità nazionali, che, come nell’età delle rivoluzioni liberali, poteva rivelarsi positivamente strumentale per alcuni paesi posti di fronte alla necessità di una ricostruzione politica ed economica, è quindi divenuta, in un contesto di generalizzata insicurezza percepita, un fattore comune a tutta l’Europa, fino ad alimentare, in alcuni casi in cui essa ha assunto tratti iconografici, divisioni e conflitti armati. Il fatto che ciò avvenga in corrispondenza dell’erosione del potere effettivo dello Stato-nazione può, forse, essere spiegato alla luce del fatto che, senza un quadro identitario che renda possibile la circolazione delle idee a livello sovranazionale, è aumentato il distacco tra le élites, economiche e politiche, che concorrono alla governance mondiale e i cittadini su cui essa produce i suoi effetti. Il quadro di riferimento nazionale appare quindi l’unico contenitore entro il quale manifestare le proprie istanze in modo percepibile. In una stagione in cui le identità assumono rilievo crescente, e spesso determinante, nelle scelte politiche, l’Europa si trova quindi a dover definire la propria con maggiore chiarezza rispetto al passato. L’Unione europea e le sue identità Il primo segno dell’adattamento dell’Europa comunitaria al nuovo scenario geopolitico ed economico è stata l’Unione economica e monetaria (UEM) che, avvenuta a coronamento di un processo in tre fasi e da una transizione non scevra da tensioni e prese di posizioni contrarie, si è rivelata un indubbio successo. L’Unione europea si trova infatti a disporre di una moneta sufficientemente forte da poter essere utilizzata nelle transazioni internazionali e da offrire alle economie degli stati membri una solida protezione in caso crisi o tensioni, garantendo stabilità al commercio e agli investimenti europei. Il continuo apprezzamento dell’Euro, sebbene possa costituire un freno alle esportazioni, è un segno evidente del successo di questa moneta e rivela potenzialmente il ruolo che, dopo la crisi della finanza statunitense e la sofferenza del dollaro, l’Europa potrebbe essere chiamata a svolgere. Oltre a garantire stabilità ai cambi, ai prezzi e ai tassi di interesse, l’Euro ha poi rappresentato un fattore di stabilizzazione del quadro europeo anche, sul piano politico, costituendo un punto di riferimento anche per le economie di molti paesi europei che non sono entrati a farne parte ed ancorando la Germania al progetto europeo. La Banca Centrale Europea (BCE) cui è affidata la gestione della politica monetaria, ha una forte visibilità anche sul piano internazionale, è rappresentata in tutti gli organismi pertinenti e costituisce parte attiva nel processo di sorveglianza multilaterale dell’economia mondiale. Sul piano monetario, l’Europa dispone quindi di uno strumento forte e di un interprete della sua politica facilmente individuabile. Con lo stesso trattato che ha istituito l’UEM, l’Unione si è data anche una politica estera comune (PESC) ed una politica di sicurezza e difesa (PESD). Essa non è però riuscita, in occasione delle maggiori crisi internazionali, a parlare con una sola voce e neppure ad arrivare ad una linea comune, dimostrando, in alcuni casi, una sostanziale incapacità a reagire con prontezza e, in altri, una divisione evidente. Migliore è stata, invece, la sua azione quando, passati i momenti di maggior virulenza, si è trattato di scongiurare il prolungarsi dei conflitti o la loro propagazione, o di assicurare e di ricostruire il tessuto economico e civile delle aree di crisi. L’Europa si è dunque rivelata più efficace nel contenere le crisi che nell’affrontarle: ciò non gli ha impedito di fare alcuni passi in avanti nell’integrazione e di teorizzare una propria identità di difesa. Una leva che l’UE ha utilizzato con maggiore efficacia è, invece, quella economico-commerciale: l’ampiezza dei fondi erogati per gli aiuti allo sviluppo e per gli aiuti umanitari, unita al peso della politica commerciale comune nei confronti dei paesi terzi ha permesso all’Unione di esercitare, spesso con successo, una politica di persuasione nei confronti dell’esterno, in modo da esportare i propri valori e garantire i propri interessi. La definizione di “potenza civile” che ne è scaturita non basta, però, a sopperire alle carenze dell’azione esterna dell’Unione e, soprattutto, non basta a guadagnarle il consenso sulle scelte operate da parte dei suoi cittadini che, pertanto, si orientano prevalentemente avendo come punto di riferimento il contesto nazionale. Sul piano interno, l’Unione ha tentato più volte di riformarsi, con esiti di volta in volta diversi. Nell’insieme, possono osservarsi una parziale ridefinizione del sistema decisionale (con un aumento dei settori di intervento dell’Unione, intaccando in molti settori il monopolio degli Stati membri, i quali però, a loro volta, hanno accresciuto la capacità di controllare e orientare le Istituzioni europee) e una momentanea incapacità di superare i limiti della sfera pubblica europea (che, pur allargatasi ad un numero elevatissimo di portatori di interessi settoriali, territoriali e diffusi, resta sostanzialmente circoscritta entro tale ambito) e di una politica di comunicazione che raggiunga la maggioranza dei cittadini. Al riguardo, è intervenuta recentemente la Corte Costituzionale tedesca che, pronunciandosi in merito al trattato di Lisbona, con cui l’UE ha riavviato il proprio processo di riforma, ha messo in rilievo, con una sentenza largamente commentata e discussa, le contraddizioni della costruzione europea, sottolineando l’imprescindibilità delle garanzie democratiche offerte dallo Stato moderno. Ogni riforma dell’Unione, che voglia dotarla di maggiore capacità di agire come attore globale, non potrà quindi prescindere dalla fondazione di un’identità condivisa. L’Unione europea, inoltre, pur avendo visto accrescere la propria sfera di azione con l’attribuzione di sempre nuove competenze e l’incorporazione di nuove aree geografiche, ha subito un rallentamento del proprio processo decisionale ed è stata a lungo esposta agli attacchi, a volte demagogici, di mezzi di informazione nazionali che hanno fatto leva proprio sui rinnovati sentimenti di appartenenza. In conclusione Il recupero di un’identità “forte” da parte dell’UE appare dunque una scelta obbligata qualora essa non voglia abdicare alla propria missione e lasciare che l’Europa scivoli in una posizione di tranquilla marginalità. La frammentarietà dell’azione comunitaria e la sovrapposizione tra intervento comunitario e azioni nazionali costituiscono i limiti più evidenti di questa via “pragmatica” alla costruzione europea. La complessità del processo decisionale comunitario e la sua parziale divergenza dalle regole classiche della democrazia appaiono i primi ostacoli da superare nell’ottica della definizione di un’identità più forte, che accresca il sentimento di lealtà da parte dei cittadini e favorisca l’individiazione di obiettivi e interessi comuni. Le più recenti riforme hanno privilegiato, invece, l’aspetto dei controlli e delle garanzie degli Stati a scapito, troppo spesso, della rappresentatività popolare e dell’efficienza delle Istituzioni. Inoltre, l’Unione dovrebbe evidenziare maggiormente gli aspetti autenticamente originali che stanno alla base dei suoi successi. Questo però, la obbligherebbe a sciogliere nodi irrisolti sin dal momento della sua fondazione. Per quanto le Istituzioni europee siano sorte in un clima di forte sostegno anche nei confronti della prospettiva di integrazione irreversibile e ad ampio raggio, esse sono state la risposta ad un problema concreto e contingente (gli approvvigionamenti di carbone e acciaio di Francia e Germania e il rilancio commercilale e industriale degli altri quattro paesi fondatori) venendo costruite in funzione di tale necessità. L’originalità delle prime Comunità europee risiedeva però nel superamento della concezione assoluta della sovranità nazionale (mai però nella sua cancellazione) e nell’istituzionalizzazione dell’interdipendenza tra gli Stati membri Più che la storia antecedente alla sua fondazione, l’Unione dovrebbe, insomma, recuperare la storia della sua fondazione, intesa però non come cronaca dei fatti che la prepararono, bensì come esplicitazione del principio ispiratore del suo funzionamento. L’Unione dovrebbe poi recuperare il rapporto con lo spazio, inteso sia come presenza delle sue Istituzioni sul territorio, che come delimitazione e caratterizzazione della sua espressione geografica. Le caratteristiche del territorio europeo, e le conseguenze della sua conformazione in termini di continuità e intensità degli scambi (dovuta al numero e alla praticabilità delle vie di comunicazione) pur nella separatezza delle comunità residenti (dovuta all’esistenza di molte barriere naturali) evocano, sul versante politico-identitario, un’idea di pluralità (piuttosto che diversità) nella coabitazione (piuttosto che nell’“unità, concetto che induce un’erronea impressione di livellamento delle differenze). Infine, va ricordato che la forza dei progetti europei di maggior successo è stata tradizionalmente quella di fondarsi su un’adesione di tipo “volontaristico” da parte degli Stati interessati. Anzi, è stata spesso la determinazione di alcuni ad attrarre i meno convinti, magari per timore di essere lasciati indietro. L’attuazione delle “geometrie variabili”, sotto forma di “cooperazioni rafforzate” o “stutturate” (queste ultime nel campo della difesa), che altro non sono che la trasposizione, sotto l’aspetto politico, della varietà geografica dell’Europa e della diversa intensità dei rapporti tra le sue regioni, permetterebbe anzi di superare più velocemente il problema dell’incompletezza delle funzioni esercitate dal livello comunitario che è un limite oggettivo all’affermazione dell’Unione come soggetto compiutamente autonomo sulla scena internazionale.
  • XXII Ciclo

Date

  • 2010-06-16T11:17:58Z
  • 2010-06-16T11:17:58Z
  • 2010-03-23
  • 1963

Type

  • Doctoral Thesis

Format

  • application/pdf

Identifier