• Ottimizzazione di portafogli di ETF nell' approccio di consulenza finanziaria indipendente
  • Zorzi, Gianni

Subject

  • metodi euristici
  • consulenza finanziaria indipendente
  • exchange traded funds
  • particle swarm optimization
  • ottimizzazione di portafoglio
  • SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN FINANZA
  • SECS-P/09 FINANZA AZIENDALE

Description

  • 2008/2009
  • Quella del consulente finanziario indipendente (Capitolo 1) è una figura professionale di elevato standing sviluppatasi a partire dagli anni ‘70 negli Stati Uniti, paese in cui l’attività è correntemente svolta da decine di migliaia di persone fisiche, iscritte ad associazioni di categoria, provviste di certificazioni anche di notevole spessore, come quella del Certified Financial Planner (CFP). Tale modello di consulenza in assenza di conflitto d’interessi è detto anche “fee-only” in virtù del suo principale tratto distintivo, ovvero che la remunerazione del professionista avviene esclusivamente a cura del cliente-investitore e non dalle società da cui sono promossi i prodotti e servizi finanziari consigliati. Rispetto al modello tradizionale di consulenza (consulenza strumentale alla vendita di prodotti finanziari: commission only), i professionisti del settore hanno dapprima iniziato ad applicare una parcella ai propri clienti (giustificata da un servizio di più ampio respiro: modello fee and commission), e successivamente a retrocedere al cliente le commissioni ricevute per il collocamento dei prodotti, secondo un maggior orientamento al cliente (modello fee offset); il modello fee only rappresenta il culmine del processo evolutivo con l’ampliamento dei contenuti del servizio offerto (da consulenza a pianificazione) e l’assunzione del carattere di piena indipendenza. Secondo l’approccio della MiFID, direttiva europea recepita in Italia nel tardo 2007, il modello fee-only è l’unica forma di consulenza in materia di investimenti che può essere condotta da persone fisiche, con particolari requisiti e secondo determinate regole (Delibera Consob n. 17130 del 12 gennaio 2010). Gli standard di qualità (ISO, 2008) tendono a definire i requisiti minimi nell’erogazione del servizio di pianificazione personale (indipendentemente dalla forma di remunerazione percepita). Questi approcci contribuiscono ad integrare a quelli emersi spontaneamente nella prassi (Sestina, 2000; Kapoor et al., 2004; Armellini et al., 2008) per quanto riguarda le competenze necessarie allo svolgimento dell’attività (tecniche, analitiche, relazionali) e la definizione delle fasi fondamentali del processo di pianificazione finanziaria personale, che in un’ottica integrata prevede: - Una prima fase riguardante gli aspetti preliminari e generali (illustrazione delle informazioni sul consulente e sui servizi offerti; definizione della relazione professionale); - Un’ampia fase relativa all’acquisizione delle informazioni dal cliente, alla verifica delle sue conoscenze ed esperienze in materia di investimenti, e alla definizione dei suoi obiettivi finanziari; l’analisi della situazione economico-finanziaria del cliente va attuata anche attraverso l’utilizzo di prospetti consuntivi e prospettici adattati al contesto (Banca d’Italia, 2009; Cannari et al., 2008; ECB, 2003); la definizione degli obiettivi e della tolleranza al rischio deve tener conto degli aspetti psicologici e di finanza comportamentale (Legrenzi, 2006; Rubaltelli, 2006; Shefrin e Statman, 2000; Motterlini, 2006; 2008); - Una terza fase relativa alla definizione tecnica del piano in un’ottica integrata (combinando vari aspetti di tipo previdenziale, assicurativo e legale), che preveda anche la formulazione dei “consigli” al cliente e la valutazione dell’ “adeguatezza” degli strumenti finanziari, richiesta in particolare dalle norme di legge; - Una quarta fase relativa all’illustrazione e all’implementazione del piano, in cui il consulente affiancherà il cliente (senza, ovviamente, assumere deleghe né detenere somme di denaro); - Una quinta fase di monitoraggio che prevede degli obblighi di rendicontazione nei confronti dei clienti e la ricorsività dell’intero processo di pianificazione sulla base delle esigenze individuate. Non esistono ancora per l’Italia dati ufficiali sul numero di consulenti fee only attualmente in attività, però la crescita dell’interesse verso la professione è testimoniata dalla nascita di alcune associazioni di categoria, che contano su qualche centinaio di iscritti. Alla luce di questi dati l’impatto della consulenza indipendente nelle scelte di investimento delle famiglie italiane può considerarsi comunque molto limitato. Le statistiche per il 2008 (Banca d’Italia, 2009) confermano invece alcune caratteristiche tipiche del sistema finanziario italiano (Capitolo 2): - Oltre il 17% delle attività finanziarie detenute dalle famiglie risultano costituite da investimenti non intermediati in attività produttive, in forma di capitale di rischio, mentre la quota riferita ai mercati azionari risulta vicina al 4%; - Tra le attività a basso profilo di rischio privilegiate dai risparmiatori vi sono quelle destinate alla raccolta degli intermediari (depositi bancari e postali, obbligazioni bancarie); l’investimento in titoli pubblici risulta limitato rispetto al passato; - La “crisi” dei fondi comuni di investimento è evidente per il fatto che le quote detenute non superano il 5% del totale delle attività finanziarie. Nel complesso, l’esposizione delle famiglie verso le attività rischiose risulta limitata e caratterizzata da elevata rischiosità per effetto del modesto ricorso alla delega/diversificazione, come osservato da Barucci (2007). Tale caratteristica è confermata anche dal confronto con l’estero e si può spiegare anche attraverso la mancanza di fiducia nei mercati azionari, che può derivare sia da componenti “oggettive” che da altre “soggettive” (basate su fattori culturali), come osservato anche da Guiso et al. (2007). In generale, in senso dinamico, si rileva una forte influenza delle politiche di offerta delle banche, oltre che dell’andamento dei mercati e dei tassi di interesse, sulle scelte di investimento dei risparmiatori. Se il crollo dei rendimenti dei titoli di stato e l’andamento positivo nei mercati hanno certamente contribuito alla sottoscrizione di quote di fondi comuni nel periodo 1995-1999, in quelli successivi (2000-2005; 2005-2008) si nota un’evidente correlazione negativa tra queste e le riserve tecniche del ramo vita, nonché delle obbligazioni bancarie e di altri depositi, come osservato in (Spaventa, 2008; Banca d’Italia, 2009). Tra il 1999 ed il 2008 il peso dei fondi è sceso dal 16% a meno del 5% con una diminuzione quantificabile in oltre 300 miliardi di euro correnti, dei quali oltre la metà riferibili a flussi di riscatto secondo i dati di Assogestioni (2009). Il deflusso di capitali dai fondi comuni può essere ricondotto ad aspetti specifici quali: - La realizzazione di performance complessivamente negative a fronte di elevati costi di gestione (evidente anche negli studi di Barber et al., 2003; Jain e Wu, 2000; Nanda et al., 2004); nel periodo 1998-2008 l’extra-performance media dei fondi azionari italiani (indici Fideuram) è negativa di oltre 27 punti percentuali, al lordo degli effetti fiscali, rispetto ad un benchmark di azioni dell’Eurozona, mentre i fondi monetari ed obbligazionari cedono circa il 10% ed il 30% rispetto ai relativi benchmark; a risultati simili giungono anche Banca d’Italia (2009), Mediobanca (2009) e Armellini et al. (2008); la media dei Total Expense Ratio oscilla inoltre tra lo 0,74% dei fondi liquidità ed il 2,33% dei fondi azionari, e l’incidenza delle retrocessioni alle reti distributive sul TER è stabile nel tempo e superiore al 70%: viene dunque remunerata l’attività di vendita più che quella di effettiva gestione del patrimonio; - La concentrazione tra attività di asset management e di distribuzione, derivante dal fatto che in Italia le banche, oltre a collocare i prodotti del risparmio gestito, sono proprietarie delle SGR di riferimento: la quota di mercato attribuibile alle SGR indipendenti risulta pari a circa il 6,5% nel 2007, in diminuzione rispetto a quanto osservato tre anni prima; si tratta di un problema riconosciuto dalla stessa Assogestioni (Messori, 2008), e più volte richiamato dal Governatore della Banca d’Italia (Draghi, 2007; 2008); - Il “problema cognitivo”, legato al comportamento non razionale degli investitori, eventualmente non supportati da un servizio di consulenza adeguato (Gualtieri e Petrella, 2006; Spaventa, 2008; Calvet et al., 2007; Legrenzi, 2005; 2006), e che determinerebbe, a livello soggettivo, l’accentuarsi delle performance negative a sfavore degli stessi. Dal punto di vista della consulenza indipendente, nell’analisi dei prodotti del risparmio gestito acquisisce notevole importanza il legame esistente tra commissioni applicate e performance netta (Cesarini e Gualtieri, 2005; Armellini et al., 2008), poiché i costi della gestione dovrebbero in larga parte remunerare il valore aggiunto conferito dagli asset manager, in una filosofia di gestione “attiva”, ovvero che non si limiti alla mera replica di un paniere di attività finanziarie scambiate in un determinato settore/mercato di riferimento (Liera e Beltratti, 2005). Dal momento che ciò molto spesso non avviene, stanno acquisendo sempre maggiore interesse gli Exchange Traded Funds (Capitolo 3), fondi comuni a gestione “passiva” che presentano costi di gestione limitati rispetto a quelli dei fondi, e che sono quotati su mercati regolamentati (Tse, 2008; Lazzara, 2003). Essi rappresentano l’evoluzione degli strumenti di portfolio trading nati alla fine degli anni ’70 nell’America del Nord (Gastineau, 2001). In Italia, le quote di ETF sono state ammesse alla negoziazione nel corso dell’ultimo decennio, in un apposito segmento dedicato di Borsa Italiana (il segmento ETFPlus). Al novembre 2009 risultavano quotati 336 ETF per un patrimonio superiore ai 10 miliardi di euro. Gli ETF sono negoziati in larga parte da investitori al dettaglio poiché il controvalore medio dei contratti risulta vicino a € 25.000 (dati Borsa Italiana). L’offerta di ETF in Italia risulta ampia e diversificata, con il 75% degli ETF di natura azionaria, il 19% di natura obbligazionaria, e la restante parte suddivisa tra liquidità ed indici di commodities. Inoltre, sono presenti anche ETF di tipo “strutturato”, ovvero quelli che, in conformità con la direttiva UCITS III, realizzano strategie di investimento diverse dalla semplice replica passiva di un indice (ad esempio investimento con leva, replica inversa e strategie con opzioni). L’investimento in ETF presenta sostanziali differenze rispetto a quello in fondi comuni al riguardo di una serie di aspetti, e risulta particolarmente interessante dal punto di vista della consulenza indipendente, anche perché nel modello di business degli ETF non è previsto il collocamento diretto dei prodotti, per cui gli investitori normalmente non ricevono alcun tipo di consulenza al riguardo, al di fuori delle attività di comunicazione e di education (comunque non personalizzate) messe in atto direttamente dalle società di gestione. Il compito del consulente, nell’approccio integrato di pianificazione personale, può essere sintetizzato nella risoluzione di un problema di ottimizzazione di portafoglio, tenuto conto delle caratteristiche del cliente soprattutto in termini di capacità e di tolleranza al rischio, nonché dell’orizzonte temporale dell’investimento, nel pieno rispetto del principio di “adeguatezza” introdotto dal legislatore. Le fondamenta teoriche della moderna gestione di portafoglio (Capitolo 4) si devono al modello di ottimizzazione parametrica di Markowitz (1952), modello uniperiodale in cui il rendimento atteso di un portafoglio (così come di una qualunque attività) è definito dalla media della distribuzione dei rendimenti a scadenza dello stesso, ed il rischio è misurato dalla loro varianza. L’evoluzione della teoria del portafoglio e i numerosi contributi provenienti dalla letteratura (non solamente dalle discipline strettamente legate alla finanza dei mercati) hanno messo tuttavia in discussione il concetto di rischio “simmetrico” espresso dalla varianza, che considera alla pari sia i “pericoli” associati ad un investimento, che le “opportunità” che ne derivano. Sulla base del concetto di “downside risk”, strettamente legato alla parte negativa di una distribuzione dei rendimenti, e di maggior intensità emotiva per gli investitori come dimostrato nella teoria del prospetto di Kahnemann e Tversky (1979), si sono proposte misure di rischio specifiche, tese a catturare taluni aspetti associati, ed utilizzabili anche in problemi di ottimizzazione (Chekhlov et al., 2003; Karatzas e Shreve, 1997; Magon-Ismail et al., 2004; Pritsker, 1997; Lucas e Klaasen, 1998). Per la verifica ex-post dell’efficienza dei portafogli attraverso l’analisi delle serie storiche vengono inoltre utilizzati particolari indicatori, detti di risk-adjusted performance (Sharpe, 1966; Treynor, 1965; Sortino e Price, 1994; Jensen, 1969; Modigliani, 1997; Keating e Shadwick, 2002), che sintetizzano in un unico indice una misura di rendimento ed una di rischiosità. Tali misure sono utilizzate in particolar modo nella valutazione dei fondi comuni (Caparrelli e Camerini, 2004; CFS Rating, 2009; Lipper, 2009) ed in generale delle gestioni patrimoniali, e si differenziano l’una dall’altra in particolare per la misura di rischio considerata (Eling e Schuhmacher, 2007; Pedersen e Rudholm-Alfvin, 2003). In generale, ci si aspetta che un qualunque indice di risk-adjusted performance, calcolato per qualunque coppia di portafogli distinti, assuma un valore maggiore per quello che tra i due risulta preferibile. Il modello di Markowitz, oltre che sul concetto di rischio “simmetrico”, si fonda su alcune rilevanti semplificazioni del problema come quella che gli investitori non sostengono dei costi nel momento in cui essi debbono concludere le transazioni di acquisto e di vendita delle attività incluse nel portafoglio. Nel problema specifico introdotto in questa ricerca, la presenza dei costi di transazione di vario genere (Capitolo 5) può influire negativamente sull’efficienza gestionale del portafoglio, producendo effetti indesiderati e determinando la potenziale irrazionalità delle soluzioni. In particolare, all’investimento in ETF si devono associare i costi di negoziazione degli ordini (nella pratica spesso variabili con dei limiti minimi e massimi) e gli spread denaro/lettera (costi lineari rispetto al controvalore negoziato), che come per tutti i titoli quotati variano sia nello “spazio” (da ETF ad ETF) che nel “tempo” (in funzione soprattutto della volatilità degli indici sottostanti). Il problema si complica ulteriormente (Maringer, 2005) con l’introduzione di alcuni vincoli, per esempio sulla cardinalità e sulla composizione del portafoglio, tesi primariamente a riflettere le esigenze specifiche dell’investitore. A questo punto l’ottimizzazione del portafoglio non può essere risolta dalle tecniche tradizionali (basate ad esempio sull’MPT di Markowitz), ed è necessario ricorrere a metodi alternativi (Maringer, 2005; Scherer e Martin, 2005; Satchell e Scowcroft, 2003). Nel corso degli ultimi decenni si sono sviluppate ed hanno assunto sempre maggior rilevanza le tecniche di ottimizzazione euristica, metodi di ricerca (con scopi generali) che derivano le soluzioni ricercando iterativamente e testando le soluzioni migliorate, finché non viene soddisfatto un determinato criterio di convergenza. Gli algoritmi di ottimizzazione euristica si differenziano per una determinata serie di aspetti (Maringer, 2005; Silver, 2002; Winker e Gilli, 2004), ma un tratto comune frequentemente riscontrato è che essi traggono ispirazione da processi riscontrabili in natura, legati ad esempio alla fisica ed alla biologia (in particolare all’evoluzione degli esseri viventi, oppure al comportamento di gruppi di animali alla ricerca di nutrizione). In questa tesi si è scelto di fare particolare riferimento al metodo Particle Swarm Optimization (Kennedy ed Eberhart, 1995; Hernandez et al., 2007; Brits et al., 2002), tecnica basata sulle popolazioni largamente utilizzata, che si ispira al comportamento degli stormi di uccelli o dei banchi di pesci. Questi gruppi di animali rappresentano organizzazioni sociali il cui comportamento complessivo si fonda su una sorta di comunicazione e di cooperazione tra i propri membri. La scelta del PSO è stata effettuata anche in base al fatto che in letteratura l’applicazione di questa tecnica ai problemi di ottimizzazione del portafoglio è limitata a pochi contributi di recente divulgazione (Fischer e Roerhl, 2005; Kendall e Su, 2005; Thomaidis et al., 2008; Cura, 2009), pur essendo stata applicata con successo ad una serie di problemi finanziari (Gao et al., 2006; Nemortaite, 2007; Nemortaite et al., 2004; 2005) Sulla base delle considerazioni espresse finora e nell’obiettivo principale di verificare la concreta possibilità di sviluppo di un metodo efficace e coerente di ottimizzazione di portafogli di ETF, specifico per l’attività di consulenza indipendente, si è proceduto (Capitolo 6) adattando un algoritmo euristico basato sul Particle Swarm (Kaucic, 2010), con l’introduzione di: - Vincoli di cardinalità (minima e massima) del portafoglio e di peso (minimo e massimo) definiti per ciascun asset (generalizzando gli approcci di Gilli et al., 2006; Cura, 2009); - Una soglia di downside risk definita da una misura di Value-at-Risk coerente con l’orizzonte temporale di investimento, per rappresentare i vincoli di capacità ed attitudine al rischio (direttiva MiFID, UNI ISO, 2009); - Funzione obiettivo basata sulla massimizzazione di una misura di risk-adjusted performance basata sull’Expected Shortfall (similmente a Krink e Paterlini, 2009; in parte anche a Bertelli e Linguanti, 2008); - Considerazione di tutti i costi di transazione legati all’investimento in ETF (costi fissi e costi proporzionali diversi per ogni asset), adattando l’approccio di (Maringer, 2005; Scherer e Martin, 2005). I test si sono eseguiti con l’utilizzo di serie storiche e parametri realistici (incluse le statistiche sui bid/ask spread pubblicate da Borsa Italiana ed i TER minimi riscontrabili sul mercato) riferiti ad 89 ETF effettivamente negoziabili sul segmento di Borsa dedicato, con l’obiettivo di valutare: - la coerenza delle soluzioni rispetto alle condizioni poste; - l’impatto dei costi di transazione ed il trade-off con la frequenza di revisione del portafoglio; - la performance ex-post corretta per il rischio (in particolar modo al confronto di investimenti alternativi); - l’applicabilità a portafogli di dimensioni ridotte e con vincoli stringenti; - la coerenza rispetto alla soglia di rischiosità e all’orizzonte temporale definiti. Nel primo test si è simulata la gestione di un portafoglio di € 100.000 nel periodo di tre anni tra dicembre 2006 e dicembre 2009 per un investitore con elevata propensione al rischio ed orizzonte temporale pari al termine del periodo di gestione, restringendo la cardinalità del portafoglio ad un minimo di 5 ed un massimo di 10 asset. La strategia prevedeva una revisione mensile con progressiva riduzione sia della tolleranza al rischio che dell’orizzonte temporale dell’investimento. All’approssimarsi della “scadenza” dell’investimento l’algoritmo di ottimizzazione, in modo coerente rispetto alle ipotesi, ha privilegiato maggiormente gli ETF di tipo obbligazionario ed ha man mano ridotto le attività di effettivo intervento (negoziazione di titoli) per via della conseguente maggiore incidenza dei costi di transazione sui rendimenti attesi. Ciononostante, la performance ex-post della strategia è risultata non soddisfacente, primariamente a causa di un elevato expense ratio annuo (ulteriore rispetto ai TER degli ETF selezionati), superiore al 4% (oltre il 6,5% solo nel primo anno), dovuto all’elevata frequenza di revisione. Il test è stato ricondotto una seconda volta riducendo la frequenza di revisione a trimestrale, con conseguente riduzione dell’expense ratio di circa il 2,5% annuo. Il trade-off tra periodicità di revisione e costi di transazione ha migliorato in questo caso la performance ex-post ad eccezione dei momenti di particolare “turbolenza” dei mercati, quando cioè i benefici della revisione del portafoglio risultano con maggiore probabilità superiori ai costi che ne derivano. Sulla base delle stesse ipotesi, nella strategia si è introdotta pertanto un’ulteriore variante basata su un indice di volatilità implicita, ai fini di intensificare la revisione del portafoglio nei periodi di maggior “stress” dei mercati, riducendo nel contempo la soglia di rischio accettabile. La strategia così modificata si è rivelata in questo caso preferibile anche nei momenti di accentuata volatilità, migliorando ulteriormente la performance a termine di quasi 6 punti percentuali. Risultati migliori si sono riscontrati riducendo ulteriormente la frequenza di revisione programmata, mantenendo nel contempo il meccanismo di “controllo” introdotto in precedenza (nel tentativo cioè di limitare gli interventi al necessario). Per rendere inoltre comparabile la strategia proposta con altre alternative di investimento (quali ETF basati su indici globali e l’indice Fideuram della media dei fondi comuni italiani azionari) si è infine condotto nuovamente il test sulla base delle ipotesi precedenti, ad eccezione di quelle riguardanti orizzonte temporale e livello di rischio tollerato, mantenute costanti per tutto il periodo di osservazione, peraltro ampliato a 4,5 anni (giugno 2005-dicembre 2009). Dal punto di vista della performance, il test produce un extra-rendimento netto medio annuo dell’1% rispetto all’ETF MSCI World e del 3,2% rispetto alla media dei fondi azionari. La volatilità annualizzata, inoltre, risulta notevolmente inferiore a quella dell’ETF azionario globale, ed inferiore, seppur di poco, a quella della media dei fondi. Gli indicatori di downside risk confermano nel complesso la minore rischiosità attribuibile alla strategia proposta, con risultati notevoli soprattutto in termini di Maximum Drawdown e di VaR 95% a 1 e a 10 giorni. Considerando il sottoperiodo di due anni tra il dicembre 2005 ed il dicembre 2007 al fine di garantire un’opportunità di confronto per indici classici di risk-adjusted performance (altrimenti impossibile per via degli extra-rendimenti negativi rispetto al free-risk), la strategia risulta ex-post preferibile (secondo l’indice di Sharpe) a quella di 77 alternative (ETF e media dei fondi) ma inferiore rispetto a quella di altri 13 ETF, risultando perciò non efficiente in senso “classico”. Nella seconda serie di test la strategia proposta ha confermato i risultati soddisfacenti rispetto ai fondi comuni pur riducendo la ricchezza del portafoglio iniziale e limitando l’universo degli asset investibili così come la cardinalità di portafoglio. Infine, nella terza serie di test si è mantenuto stabile l’istante temporale dell’ottimizzazione, facendo variare nel contempo orizzonte temporale e soglia di rischiosità tollerata. Il risultato delle 28 elaborazioni, valutato in termini di asset allocation (ed in particolare del peso ottimo della componente obbligazionaria suggerito dall’algoritmo) mostra la coerenza dell’output rispetto alle condizioni iniziali fissate per ipotesi, considerata anche alla luce dei vincoli imposti. In definitiva, i risultati dei test empirici appaiono soddisfacenti, con la dovuta cautela, e pur rimandando a futuri approfondimenti l’analisi particolareggiata di taluni aspetti, si è osservato che: - L’algoritmo ha prodotto risultati coerenti con le ipotesi assunte, in particolare per quanto attiene alle soglie di tolleranza al rischio e all’orizzonte dell’investimento; - Le strategie formulate hanno prodotto delle performance ex-post elevate in termini di rischio/rendimento rispetto ad investimenti alternativi comparabili (nonostante non si siano introdotte particolari metodologie di previsione per le serie storiche); - Il risultato precedente è confermato anche in presenza di portafogli di dimensioni ridotte, con vincoli particolarmente ristretti sulla cardinalità del portafoglio e con ridotti interventi di riallocazione delle risorse. Il processo di formulazione delle ipotesi, ed in particolare dei parametri relativi ai vincoli, risulta facilmente adattabile alle esigenze specifiche del processo di consulenza. In generale, l’impostazione soddisfa da un lato i requisiti normativi individuati dal Regolamento Consob in tema di consulenza in materia di investimenti, nonché l’approccio proposto dagli standard di qualità, e si colloca facilmente nella fase di definizione tecnica del piano (di cui il consulente è responsabile). L’applicazione degli strumenti richiede in ogni caso la massima sensibilità ed expertise da parte del consulente stesso nell’adattare i parametri del problema alle diverse fattispecie. La congruenza della parte tecnica con il servizio di consulenza finanziaria si fonda anche sulle caratteristiche di: - Ridotta complessità delle attività di negoziazione titoli e di gestione del portafoglio che le strategie proposte implicano; - Vasta accessibilità degli asset considerati; - Scalabilità ed adattabilità delle soluzioni anche nei casi di portafogli di minori dimensioni; - Corretta e completa considerazione dei costi di negoziazione. Se gli opportuni approfondimenti e verifiche confermeranno i risultati empirici ottenuti nella presente ricerca, l’impianto potrà essere ulteriormente sviluppato e migliorato per esempio attraverso: - l’implementazione di un solido ed efficace metodo di previsioni sulle serie storiche; - l’introduzione di elementi di stress testing (ad esempio su variazioni nella correlazione tra gli asset); - l’introduzione di ulteriori vincoli per permettere di introdurre alcuni elementi di formulazione a priori dell’asset allocation strategica desiderata (approccio top-down); - la considerazione di attività finanziarie diverse dagli ETF, sia per perfezionare i rendimenti della parte “non rischiosa” che gli aspetti di natura fiscale, legati in particolar modo alla gestione del credito d’imposta.
  • XXII Ciclo
  • 1979

Date

  • 2010-07-27T14:35:51Z
  • 2011-05-31T09:31:57Z
  • 2010-04-12

Type

  • Doctoral Thesis

Format

  • application/pdf

Identifier