• La tutela penale del risparmio e del mercato finanziario. L'insider trading
  • Rocco, Gian Luigi

Subject

  • insider trading
  • tutela del risparmio
  • mercato finanziario
  • diritto penale
  • SCIENZE PENALISTICHE
  • IUS/16 DIRITTO PROCESSUALE PENALE

Description

  • 2008/2009
  • 1. Il mercato finanziario ed il risparmio costituiscono valori costituzionalmente significativi, data l’importanza che rivestono per il tessuto economico e finanziario di un Paese, tanto più in un’economia globalizzata, come quella contemporanea, sempre più caratterizzata da un processo di finanziarizzazione della ricchezza. L’assetto normativo e regolamentare, che deve presiedere al funzionamento del mercato ed alla gestione del risparmio, è storicamente caratterizzato dal tentativo di ricercare un equilibrio tra due opposte esigenze: da una parte, quella di evitare il rischio di un’ipertrofia normativa e di un conseguente eccessivo soffocamento del mercato; dall’altra, quella di offrire ai risparmiatori un livello di protezione qualitativamente sufficiente per preservare la fiducia che gli stessi ripongono nell’integrità e nel corretto funzionamento del mercato stesso. Muovendo dalla consapevolezza che l’attività di intermediazione finanziaria deve essere promossa e valorizzata perché essenziale allo sviluppo di una moderna economia di mercato ma che, per la sua intrinseca fragilità e connaturata rischiosità, non può essere integralmente lasciata alla mercé delle dinamiche di quest’ultimo, necessitando invece di un intervento di eteroregolamentazione finalizzato alla protezione di interessi individuali e collettivi previamente selezionati. 2. A partire dagli anni novanta l’ordinamento dei mercati finanziari è stato interessato dal succedersi di vari interventi normativi, da ultimo quelli operati con le leggi n. 62 e n. 262 del 2005. Nel complesso, si è trattato di una produzione normativa tumultuosa e disorganica, sovente emanata sull’onda dell’emergenza per reagire ai ripetuti fenomeni di “abuso del risparmio e dei risparmiatori” che hanno duramente colpito la finanza italiana ed internazionale nell’ultimo decennio (si pensi, solo per citarne alcune, alle vicende Enron, Cirio, Parmalat, Giacomelli, Lehman Brothers ecc..). In questo frenetico ed estemporaneo procedere normativo, un ruolo di primo piano è stato svolto dal diritto penale, per la tendenza, ormai radicata, del legislatore nazionale di affidare la tutela del risparmio alla presunta forza deterrente della sanzione penale, spesso usata in chiave espressiva o simbolica, in una sorta di delega permanente conferita allo strumento penalistico a fungere da principale, se non spesso esclusivo, rimedio alla crisi del sistema finanziario ed ai fenomeni di dispersione della ricchezza. Si tratta, all’evidenza, di una visione miope e destinata all’insuccesso, prova ne siano i ripetuti tentativi di riforma occorsi nell’ultimo ventennio, dettati più dall’improvvisazione che da una logica di razionalità sistematica, tutti nel segno di un infittimento del corpo normativo e di una revisione al rialzo dei limiti edittali e tutti clamorosamente e prevedibilmente incapaci di impedire il verificarsi di casi di vero e proprio saccheggio e distruzione del risparmio gestito. La situazione è resa ancor più grave dal fatto che i tanti - troppi - fatti di dispersione della ricchezza dei risparmiatori non possono più essere considerati come scandali finanziari isolati, come semplici big apples, rappresentando, invece, l’espressione ed il risultato di una crisi di sistema che colpisce le fondamenta dell’ordinamento e della struttura finanziaria internazionale. Facendo apparire quanto mai illusoria l’idea di reagire affidandosi alle virtù salvifiche del mercato terapeuta di se stesso ed erronea la soluzione di continuare nel solco di un irrigidimento estemporaneo della normativa penalistica e della relativa cornice sanzionatoria, senza che ciò venga accompagnato da una diagnosi attenta ed analitica dei mali del sistema e da una ricognizione altrettanto puntuale dei rimedi da adottare. Quale, allora, la via d’uscita? 3. Quella di avviare, nell’immediato, un importante processo di riforma dell’ordinamento finanziario, facendolo precedere da una riflessione di fondo sul tipo di mercato finanziario che si intende prediligere: un mercato dove prevale, in termini assoluti e senza mediazioni, la necessità di una difesa del singolo risparmiatore, che si realizza garantendo un mercato contraddistinto da una tendenziale parità di condizioni tra gli investitori e da una tutela indistinta e piena delle funzioni di vigilanza, la quale verrebbe assicurata sanzionando le violazioni e le inosservanze a canoni positivi spesso solo formali od organizzatori? Oppure, un mercato inteso prioritariamente come luogo di libero scambio di informazioni e di capitali, che ha in sé e che vive e si nutre della speculazione, salvaguardandone nel contempo la fiducia, la trasparenza e l’integrità mediante la repressione di (e solo di) quei comportamenti di abuso che esauriscono il loro contenuto in una dimensione esclusivamente speculativa? L’attuale diritto del mercato finanziario risulta sostanzialmente conformato al primo dei due modelli sopra indicati: le regole sono spesso il frutto di interventi estemporanei e disorganici, dettate più dall’improvvisazione che da una logica di sistema, in ogni caso formalmente (ma con scarsa effettività pratica) finalizzate a reprimere - spesso stabilendo pene severe e con un uso frequente della strumentazione penalistica - quei comportamenti ritenuti lesivi della parità di condizioni tra gli investitori o di mera trasgressione a prescrizioni di natura prettamente formale ed organizzatoria. La realtà è dunque quella di un corpo normativo che, spesso in nome di un’eguaglianza fra gli investitori o di una simbolica ed eticheggiante difesa del risparmiatore, fa un uso massiccio della sanzione penale per reprimere comportamenti che, il più delle volte, si esauriscono in mere violazioni formali e di canoni organizzativi, esercitando una scarsa efficacia preventiva, com’è dimostrato dalla frequenza con cui si sono verificati, solo a guardare gli ultimi anni, scandali finanziari con gravi danni per i risparmiatori. E tutto questo viene realizzato avvalendosi (e piegando) il diritto penale ad un uso spesso simbolico, eticheggiante, puramente organizzatorio. 4. Si ritiene, invece, quanto mai necessario procedere verso un sistema normativo idoneo a perseguire il fine ultimo di ogni realtà giuridica posta a protezione del mercato finanziario: coniugare efficacemente l’esigenza che il Paese benefici di un mercato libero, non ingessato, capace di attrarre i capitali e gli investimenti a sostegno del circuito produttivo, con la necessità, altrettanto fondamentale, che di quel mercato venga garantito il buon funzionamento, la trasparenza dell’informazione che in esso circola e dunque, in ultima istanza, la fiducia dei risparmiatori. Allontanando ogni istanza egualitaristica ed accettando la speculazione come condizione di esistenza del mercato stesso. Inquadrato l’obiettivo - dovendosi ritenere ormai abbandonata l’idea del mercato quale esclusivo terapeuta di se stesso e presidio migliore della stabilità finanziaria - il suo conseguimento richiede un serio e ponderato processo di ristrutturazione delle regole del gioco poste a presidio del buon funzionamento e dell’integrità del mercato, muovendo lungo alcune direttrici di fondo. 5. Una prima linea guida è nel senso di un definitivo abbandono della strada dell’ipertrofia penalistica, lastricata di norme dalla scarsa effettività pratica e che spesso si esauriscono nel punire mere disfunzionalità organizzative, dando vita ad illeciti di pura disobbedienza in nome di un’idea di funzionalizzazione dell’attività d’impresa. Vi è, dunque, la contingente necessità di porre termine ad una stagione, durata oltre un ventennio, che ha visto la giustizia penale svolgere un ruolo di supplenza rispetto alle lacune dell’ordinamento societario, della giustizia civile, del modello di vigilanza sull’operato degli intermediari, alimentando sovente delle tensioni rispetto ai principi cardine del diritto penale - in primis quelli di frammentarietà, tassatività ed offensività. L’opera di rifacimento delle regole del gioco deve dunque tendere, anzitutto, a restituire al sistema penale degli intermediari finanziari i crismi dell’effettività dei precetti e della coerenza con i principi generali del diritto penale e, da ultimo, la capacità di concorrere efficacemente alla diffusione e al mantenimento di un nucleo condiviso e fondante di valori in materia di gestione del risparmio collettivo. Vanno dunque superati i tradizionali limiti che oggi affliggono il diritto penale del mercato finanziario: l’antisistematicità, vale a dire le disarmonie e le ingiustificate differenze di contenuto e sanzionatorie intercorrenti tra fattispecie relative a settori diversi del mercato finanziario, mediante la creazione di figure di reato omogenee e tendenzialmente comuni ai vari segmenti del risparmio gestito; la tensione con i principi di necessità e sussidiarietà della pena: la sanzione penale dovrebbe essere l’extrema ratio, l’ultima spiaggia cui ricorrere, mentre nel nostro Paese da tempo sembra che sia anche l’unica spiaggia su cui si gioca la difesa del risparmio e degli interessi ad esso strumentali; il basso livello di osservanza dei canoni di tassatività ed offensività, a causa della formulazione spesso vaga ed indefinita delle fattispecie incriminatrici, anche a causa di continui rinvii a qualificazioni extrapenali, e della tendenza ad arretrare la linea di tutela disancorandola da elementi di concreta lesività e costruendola più su finalità di promozione etica che su interessi giuridici aventi i crismi della materialità e dell’afferrabilità, propri dell’oggetto giuridico nella sua c.d. concezione realistica. Ciò che, però, condiziona a monte la riforma del sistema penale finanziario - e con essa la scelta di selezionare i comportamenti da reprimere penalmente – è l’interrogativo su quali siano o, meglio, dovrebbero essere gli interessi giuridici oggetto di tutela nel diritto penale finanziario. 5.1. Analizzando la fattispecie dell’insider trading, erroneamente considerata l’architrave portante del diritto penale degli intermediari finanziari, sono state esaminate le diverse correnti di pensiero che hanno trovato origine attorno al problema dell’individuazione degli interessi giuridici, meritevoli di tutela, nei quali si declina il bene o valore superiore e costituzionalmente rilevante del “risparmio”: dall’istanza egualitaristica della parità conoscitiva tra gli investitori al dovere di riservatezza facente capo agli esponenti aziendali delle società emittenti; dalla tutela della trasparenza informativa all’opinione, oggi prevalente, che identifica l’interesse tutelato - forse in parte confondendolo con la ratio puniendi - riassumendolo nella formula nota, ma vaga ed indeterminata, del “buon funzionamento, dell’integrità e dell’efficienza del mercato”. E’ fuor di dubbio che l’eguaglianza informativa, la trasparenza, la liquidità, la stabilità degli intermediari, l’efficienza ed il buon funzionamento del mercato finanziario rappresentano valori ed ideali da perseguire e difendere, ma essi si sostanziano in obiettivi etico-moralistici ed in valori macroeconomici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena e quindi assurgere al rango di effettivi beni giuridici di una fattispecie di reato. A patto, dunque, di non voler aderire alla tesi che qualifica la norma penale sull’i.t., al pari anche di altre norme del diritto penale finanziario, come “norme manifesto” - che stabiliscono divieti al solo fine di convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito e trasparente, assolvendo dunque ad una funzione di promozione etica del mercato, invero estranea al diritto penale -, non resta che ricercare aliunde il bene protetto da assurgere ad oggettività giuridica del sottosistema del diritto penale degli intermediari finanziari. 5.2. Un primo elemento su cui costruire le fondamenta di un valido percorso argomentativo è l’osservazione secondo cui il mercato finanziario, alla stessa stregua di altri interessi o valori di ampio respiro quali l’economia o il territorio o l’ambiente, non è oggetto di tutela ma oggetto di disciplina. L’affermazione sta a significare che il mercato finanziario è un luogo nel quale convergono interessi di varia natura, individuali e collettivi, tra loro talora convergenti, talaltra contrastanti: gli interessi delle imprese, dei piccoli risparmiatori, degli operatori od investitori professionali, ma anche l’interesse collettivo alla tutela del risparmio che rappresenta una risorsa indispensabile per lo sviluppo del Paese. La struttura funzionale del mercato, per definizione basata sullo scambio ed avente come sua componente ineliminabile il fattore “rischio” e la correlativa dimensione speculativa, non è in grado a priori di regolare la coesistenza, il bilanciamento o la prevalenza dei vari interessi che vi si rappresentano. Di qui, la necessità che il legislatore stabilisca delle regole volte a disciplinare il funzionamento del mercato sotto vari profili: accessibilità degli operatori ed intermediari, negoziabilità dei prodotti, organizzazione delle contrattazioni, circolazione dei flussi informativi ecc… Ecco, allora, che se il mercato è oggetto di una disciplina che ne regolamenta l’uso ed il funzionamento, dettando delle regole del gioco, il diritto penale del mercato finanziario altro non è che la sanzione della violazione delle “regole del gioco”. 5.3. Il secondo passaggio del ragionamento, consequenziale al primo, consiste allora nel comprendere quali regole del gioco, tra le tante che compongono la disciplina positiva del mercato finanziario, possano o necessitano di essere presidiate anche da una sanzione penale e quali, invece, possano e debbano beneficiare solo di tutele extrapenali per l’impossibilità di rinvenire delle oggettività giuridiche ad esse sottostanti, meritevoli di ricevere una copertura penalistica. Risulta a questo punto evidente che l’unico criterio capace di fondare validamente una selezione di tal fatta è rappresentato dall’esistenza di un interesse giuridico meritevole di tutela penale, vale a dire di un bene che abbia un contenuto valoristico autonomo e che non si confonda nei valori generali ed etici più volti menzionati, né tanto meno nello scopo della norma, e che presenti quelle caratteristiche di afferrabilità e consolidamento sociale tali da poterne apprezzare la fondazione materiale. 5.4. Ad avviso di alcuni commentatori ed anche di chi scrive, l’interesse giuridico che qualifica (o che dovrebbe qualificare) l’intero settore del diritto penale degli intermediari finanziari, rappresentandone il vero fulcro normativo, è dato dalla relazione tra la tutela dell’interesse ad una corretta allocazione del risparmio e la tutela delle funzioni delle autorità di vigilanza. Più precisamente: la funzione di vigilanza e di controllo del mercato, svolta da varie autorità nei diversi segmenti ma concettualmente riconducibile ad unità, è l’elemento specializzante e coessenziale del diritto penale finanziario. Ciò posto, l’intervento di penalizzazione è legittimo solo laddove la tutela delle funzioni di vigilanza è strumentale all’osservanza di quelle regole del gioco poste a protezione delle esigenze nelle quali si estrinseca la tutela del risparmio e dei valori ad esso connessi e consequenziali: l’interesse privatistico del risparmiatore ad una corretta allocazione del risparmio e l’interesse pubblico alla stabilità e protezione del mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo che ne possano compromettere la funzione di insostituibile fattore di produzione e sviluppo quali, ad esempio ed in primis, il riciclaggio di danaro di provenienza illecita. L’epicentro del diritto punitivo degli intermediari finanziari è pertanto rappresentato dalle funzioni di vigilanza e dalla tutela delle stesse. Vi è dunque una relazione strettissima tra le disfunzioni della vigilanza e l’instabilità del mercato, a conferma che la tutela del risparmio filtra e passa attraverso la tutela della vigilanza. Il risparmio, dunque, anche quando non viene direttamente ed immediatamente raggiunto dall’offesa racchiusa nel fatto incriminato, costituisce pur sempre la “fonte di legittimazione sostanziale” dell’avanzamento dell’intervento penale verso le “strutture” e le “funzioni” della vigilanza. La tutela del valore costituzionale del risparmio permette, dunque, al modello di anticipazione della tutela sul piano delle funzioni di vigilanza di superare indenne il giudizio di bilanciamento: posto a confronto con il risparmio, il principio di offensività deve cedere le posizioni necessarie per realizzare una tutela del primo che sia razionale ed efficace. Si ritiene pertanto non azzardato affermare che la tutela delle funzioni di vigilanza rappresenta o, meglio, dovrebbe rappresentare, l’oggetto giuridico dell’intero micro-sistema del diritto penale finanziario. Salvo poi far assumere alla stessa un sostrato materiale più concreto ed una più evidente afferrabilità sociale laddove essa è destinata ad operare, vuoi nella tutela dell’interesse privatistico alla corretta e conforme allocazione del risparmio, vuoi nella tutela dell’interesse pubblicistico alla difesa del mercato da fenomeni di criminalità organizzata o, comunque, da pratiche manipolatorie che ne distorcono i meccanismi di funzionamento. Un’impostazione, quella sopra esposta, estranea agli schemi del diritto penale classico, per cui l’oggetto giuridico è sempre identificato in beni socialmente riconosciuti e coincidenti con interessi individuali della persona. Si tratta, tuttavia, di un’opzione valida sotto il profilo sistematico ed assiologico, atteso che il diritto penale moderno è da tempo attraversato da un processo di smaterializzazione dell’oggetto giuridico e dalla contemporanea utilizzazione della strumentazione penalistica per la tutela della funzionalità dei meccanismi di intervento dello Stato e della pubblica amministrazione in diversi campi, per lo più in quelli condizionati dall’evoluzione tecnologica e degli assetti sociali e caratterizzati dalla presenza di interessi adespoti e collettivi: la salute, l’ambiente, senza dubbio l’economia, la finanza ed il risparmio. E’ indubbio, da un lato, che la tutela (anche penale) delle funzioni di vigilanza è condizione indispensabile ed irrinunciabile per assicurare una protezione efficace del mercato finanziario e del risparmio e, dall’altro, che le tradizionali forme di tutela del patrimonio si rivelano, all’evidenza, insufficienti allo scopo. Ma, d’altro canto, è parimenti vero che non è accettabile quella fuga dalla concezione realistica del bene giuridico (e dalla sua insopprimibile funzione di limite al legislatore), che si è ormai sovente verificata ogni qualvolta sono state coniate delle figure di reato nelle quali si punisce la mera inosservanza di norme di organizzazione e non di fatti socialmente dannosi, scambiando gli oggetti di tutela penale con le rationes di tutela, il tutto in nome di esigenze di controllo efficientista del sistema. E’ innegabile che il diritto penale svolge un ruolo di coesione e di credibilità dell’ordinamento giuridico nel suo complesso e che di esso si tende spesso a fare un uso c.d. “interventista” e “simbolico”, caricandolo di un compito di profilassi della società e di una funzione di rassicurazione sull’efficienza e moralità del sistema normato. Questo è accaduto anche e soprattutto nel campo dei reati economici ed in materia di tutela del risparmio e del mercato. In sé, quella di assumere ad oggetto di tutela penale un’attività o funzione giuridicamente autorizzata - nella fattispecie la funzione di vigilanza - è una scelta necessitata, se si vuole assegnare una protezione efficace a beni di interesse collettivo, ma al tempo stesso compatibile con i canoni del diritto penale, a patto che si tratti di attività giuridicamente regolate dietro la cui lesione o messa in pericolo sia possibile cogliere ed afferrare la dimensione sociale e materiale dell’interesse tutelato e la concretizzazione dell’offesa ad esso arrecata. Declinando l’assunto, in tanto la tutela penale delle funzioni di vigilanza del mercato è compatibile con la concezione realistica del bene giuridico solo in quanto la sfera repressiva riguardi esclusivamente comportamenti che siano materialmente afferrabili e di cui si possa cogliere la dannosità sociale: ciò che, ad avviso di chi scrive, si verifica allorché la violazione delle regole del gioco si traduca in una situazione di danno o di pericolo per l’interesse del risparmiatore alla corretta allocazione del risparmio e per l’interesse pubblico alla protezione del mercato da fattori esterni di pregiudizio. In difetto di queste condizioni, l’intervento penale si espone al rischio di creare illeciti di pura trasgressione, di tutelare non vittime ma meri obiettivi di organizzazione od istanze socio-politiche di eticità ed efficienza del sistema, addivenendo, per questa strada, alla costruzione di un assetto normativo compatibile con una concezione c.d. metodologica del bene giuridico, vanificando così le garanzie formali e sostanziali proprie della concezione realistica ed affidando alla norma penale una funzione meramente sanzionatoria, destinata, non a punire comportamenti di danno o di pericolo, bensì a rafforzare, col deterrente penale, una disciplina preventiva e di organizzazione già strutturata dal diritto privato o dal diritto amministrativo. 5.5. Tanto premesso, occorre ritornare alla questione posta, osisa quella di identificare, alla luce dell’oggettività giuridica sopra configurata, quali “regole del gioco”, facenti parte della disciplina del mercato finanziario, debbano essere presidiate da una sanzione penale. In questo senso può aiutare la suddivisione operata dal Padovani tra regole poste a garanzia della neutralità del mercato finanziario e regole poste a tutela della identità del medesimo: il primo gruppo di regole è costituito da presidi organizzativi e da tecniche operative volte a delimitare il perimetro del gioco, affinché il mercato si ponga come strumento neutrale rispetto a tutti gli attori interessati e determini, per questi, pari opportunità e condizione di partenza (si pensi alle regole che disciplinano l’accesso degli intermediari a certi ambiti di operatività, alle autorizzazioni alla prestazione di certi servizi o, ancora, alle norme che prescrivono limiti nella gestione degli investimenti, a quelle che sanzionano il mancato o non corretto invio delle segnalazioni di vigilanza ecc); il secondo gruppo di regole è funzionale ad assicurare l’identità del gioco stesso, ossia a garantire che questo non sia truccato, cioè a dire contaminato da forme e comportamenti di abuso che possono determinare un’indiscriminata ed ingiustificata distribuzione del rischio tra gli operatori (vi rientrano il comportamento penalmente sanzionato di chi manipola il mercato diffondendo notizie false su determinati strumenti finanziari, il fenomeno del riciclaggio nel mercato di danaro di provenienza illecita, per molti Autori anche la condotta di insider trading). L’opinione largamente dominante tra gli studiosi del diritto penale è quella per cui ambedue i gruppi di regole sopra menzionati meritano di essere assistiti da un presidio penale. Ciò, anzitutto, sotto il profilo della proporzione in quanto, se è pur vero che queste regole realizzano, per lo più, una tutela anticipata rispetto alla possibile produzione dell’evento lesivo, è anche vero che esse dispiegano la loro utilità proprio nel pervenire ad una neutralizzazione tempestiva dei possibili effetti dannosi e pregiudizievoli di una determinata condotta. Secondariamente, il giudizio di favor trova poi conferma anche sul fronte della sussidiarietà od extrema ratio, in considerazione della mancanza di valide alternative sanzionatorie, adducendo la necessità di una tutela preventiva e forte a difesa del buon funzionamento, dell’efficienza e dell’integrità del mercato, che solo il deterrente penalistico è in grado di offrire. 5.6. Si ritiene di discostarsi in parte dalla soluzione generalmente condivisa e di proporre una riforma del diritto penale finanziario che, muovendo da una ricostruzione dell’oggettività giuridica e recuperando una dimensione rafforzata dei canoni di proporzione, sussidiarietà e tassatività, pervenga ad un assetto regolamentare ispirato alle seguenti linee guida: - il ricorso alla sanzione penale solo come presidio alla violazione delle regole poste a tutela della c.d. identità del gioco, preferendo mezzi sanzionatori alternativi con riferimento all’inosservanza delle regole poste a tutela della c.d. neutralità del mercato; per queste ultime, infatti, la sanzione penale è sproporzionata e priva di una reale efficacia deterrente, venendo a configurarsi illeciti penali di stampo meramente organizzatorio, che si sostanziano in una tutela eccessivamente anticipata rispetto alla possibile lesione dell’interesse privatistico alla corretta allocazione del risparmio. E’ indubbio che l’accertamento della violazione di queste regole dipende dal corretto e tempestivo esercizio dei poteri attribuiti agli organi di controllo e vigilanza, di tal guisa che, con la sanzione criminale, si vuole che anche la possibilità di accertamento risulti anticipata rispetto ad ogni eventuale futuro evento lesivo. Ma, così ragionando, si arriva a piegare lo strumento penale ad una funzione, per così dire, sostitutiva della tempestività dell’esercizio delle funzioni di vigilanza: altrimenti detta, si rafforza la (supposta) funzione specialpreventiva della pena per compensare le lacune ed i ritardi di un sistema di vigilanza sull’operato degli intermediari. Siffatto modus operandi si rivela, prima di tutto, inutile perché non perviene ad alcun risultato sul terreno della prevenzione, che richiede per contro di rivedere il modello di vigilanza prefigurando meccanismi di costante dialogo tra gli organismi di controllo e i soggetti vigilati, così da favorire una sorta di accompagnamento dei secondi ad opera dei primi, condizione indefettibile per garantire la neutralità del mercato finanziario rispetto agli interessi in gioco, Dall’altro, si dimostra in contrasto con i principi di offensività, proporzionalità e sussidiarietà, atteso che si tratta di fattispecie formali od organizzatorie rispetto alle quali non è dato rintracciare un oggetto giuridico consolidato ed afferrabile e che, in più, esprimono un grado di lesività tale da giustificare il ricorso alla meno severa e più duttile sanzione amministrativa. - l’introduzione di una nuova fattispecie di infedeltà patrimoniale, la cui mancanza nel vigente ordinamento è il riflesso di un evidente stato di contraddizione, incoerenza e lacunosità dell’attuale assetto del sistema penale finanziario, posto che oggi si sanzionano, con pene anche gravi, comportamenti che violano mere regole di organizzazione spesso prive di un’effettiva carica offensiva, oppure si promuovono crociate verso fenomeni la cui lesività è tutta da dimostrare (il riferimento è all’insider trading), nel mentre manca una fattispecie ad hoc idonea ad incriminare quella variegata e complessa serie di comportamenti con cui, sempre più diffusamente, gli emittenti o gli intermediari/gestori realizzano vere e proprie forme di abuso a danno dei risparmiatori. Si è detto che il nucleo centrale della tutela penale del mercato finanziario è rappresentato, oltre che dall’interesse pubblicistico di difendere il mercato da fenomeni criminali provenienti da fattori esterni, dall’interesse del singolo risparmiatore/investitore ad un’allocazione e gestione del proprio risparmio fedele al mandato fiduciario conferito, alle disposizioni di legge e ai principi di prudenza, stabilità ed integrità patrimoniale e buona fede. Non potendo applicare lo statuto penale della pubblica amministrazione alle banche, e tanto meno ad altri intermediari, non resterebbe che ricondurre quei comportamenti ai paradigmi della truffa ex art. 640 c.p. e dell’appropriazione indebita ex art. 646 c.p., con tutti i limiti che ne derivano, trattandosi di figure generaliste e spesso inadatte a dare copertura a fatti molto specifici e dal complesso tecnicismo. S’impone, a questo punto, la necessità, già espressa dal Pedrazzi, di introdurre nell’ordinamento la figura autonoma del reato di infedeltà patrimoniale, capace di reprimere, non solo quei comportamenti nei quali è evidente l’appropriazione di un vantaggio patrimoniale a danno di un terzo, ma anche quelle condotte caratterizzate da una connotazione in termini di rischio eccessivo od anomalo dell’operazione perfezionata, oltre i limiti del mandato fiduciario ovvero per gestione infedele o in conflitto di interessi. - la configurazione di una soluzione ad hoc per il fenomeno dell’insider trading che, nonostante si possa ascrivere al gruppo di regole poste a presidio della c.d. identità del mercato, si ritiene necessiti di essere depenalizzato in difetto di un solido fondamento socio-economico sottostante all’attuale divieto, prevedendo, per converso, l’adozione di presidi infrasocietari nell’ambito del rapporto privatistico insider/emittente. 6. Al di là delle divisioni che emergono dal dibattito sull’individuazione dell’interesse giuridico protetto dalla fattispecie di incriminazione dell’insider trading, si registra un generale favor per l’opzione penale, sostenendo che il rango dell’interesse da proteggere e la gravità dell’offesa giustificano l’impiego dello strumento penalistico alla luce dei due criteri che devono guidare la scelta della sanzione penale: la proporzionalità e la sussidiarietà. 6.1. Si ritiene di dissentire dall’opinione comune, prima di tutto per la mancanza del connotato della dannosità sociale del fenomeno, capisaldo del garantismo illuminista che esprime l’istanza per cui la legge penale deve punire solo quei comportamenti che effettivamente turbino le condizioni di una pacifica coesistenza e che siano avvertiti dalla collettività come generatori di danni ad interessi significativi e meritevoli di protezione. Anche se ad avviso dei più è dato registrare, oggi, un consenso sociale sulla repressione della pratica de qua, si ritiene quanto meno legittimo porre in dubbio che il fenomeno dell’insider trading sia davvero sentito come socialmente dannoso dalla generalità dei consociati. Basti porre mente al fatto che la diffusione della pratica dell’i.t. nei mercati finanziari non sembra avere affatto minato la fiducia degli investitori, se si guarda all’evoluzione che ha caratterizzato i mercati azionari nell’ultimo ventennio. Si è, invece, dell’opinione che la società avverta fortemente la necessità di colmare il vuoto di tutela che esiste avverso quelle forme di indebita sottrazione e sperpero della ricchezza risparmiata, poste in essere da intermediari ed operatori che agiscono secondo logiche poco trasparenti e permeate da situazioni di conflitto di interesse, mentre non appare per nulla diffusa nell’opinione pubblica la convinzione circa l’immoralità della pratica di insider trading, di cui spesso non si conosce neppure il significato. 6.2. Ritornando sulla vexata quaestio della ricerca del bene giuridico offeso dall’i.t., si è detto che l’opinione dominante fra gli interpreti, sostenuta dai Considerando del legislatore comunitario e dalle dichiarazioni di intenti di quello nazionale, è nel senso di qualificare l’insider trading alla stregua di un reato plurioffensivo, lesivo di interessi generali dell’economia quali la fiducia degli investitori, il buon funzionamento e l’efficienza del mercato, la trasparenza, la potenziale parità di condizioni tra gli investitori ecc… I commentatori si dividono dando prevalenza ora all’uno ora all’altro dei valori testé menzionati, ma le loro posizioni convergono nel ritenere che l’interesse da difendere non vada ricercato nella sfera privatistica della società emittente o del privato controparte dell’insider, quanto in un interesse generale e collettivo, adespota, riferibile alla regolarità del mercato mobiliare nel suo insieme, declinata talora in termini di efficienza, liquidità e buon funzionamento, talaltra in termini di parità di condizioni, ovvero ancora adducendo la lealtà e l’eticità delle contrattazioni e l’immagine di un mercato pulito e trasparente quale stimolo agli investimenti. La sussistenza di un interesse generale di ampia e significativa portata e di rilievo costituzionale, unitamente alla riconosciuta inefficacia delle sanzioni extrapenali, conduce dunque la maggioranza degli interpreti a ritenere che la scelta repressiva dell’i.t. è coerente con i canoni di proporzione e sussidiarietà: se in forza dell’art. 47 Cost., la Repubblica incoraggia il risparmio, l’insider trading lo scoraggia, frustrando l’aspettativa dei risparmiatori ad un comportamento leale e trasparente degli operatori. 6.3. La tesi sopra esposta, nonostante incontri il sostegno del pensiero dominante tra gli interpreti e della volontà della maggior parte dei legislatori europei e non, risulta per una serie di argomentazioni poco convincente ed in parte anche incoerente con il sistema. In primo luogo, occorre ricordare che il fondamento economico del divieto di i.t. è tutt’altro che dimostrato. L’analisi delle diverse scuole di pensiero, riportata nel capitolo che precede, rende alquanto evidente la mancanza di un chiaro fondamento politico e socio-economico del divieto o della liceità dell’insider trading. La legislazione penale sull’i.t. sembra quasi assumere un connotato di autoreferenzialità e di status symbol: punisce il fenomeno perché rappresenta una pratica costante e diffusa nei mercati finanziari, perché è sanzionata nella maggior parte dei paesi, perché così facendo il legislatore è messo nelle condizioni di reagire ai ripetuti scandali finanziari e lanciare un messaggio forte sulla pulizia e moralità del mercato, veicolate attraverso le etichette del buon funzionamento, della trasparenza e dell’efficienza del mercato stesso. Certo è che si tratta di espressioni generiche e tautologiche che non possono rappresentare la motivazione sociale ed economica della scelta punitiva. Un punto fermo dell’indagine è quello per cui l’informazione rappresenta una componente essenziale per l’efficienza del mercato: maggiore è la quantità e la qualità dell’informazione disponibile, più il mercato si caratterizza per una facile convertibilità dei titoli negoziati, e più le quotazioni di questi ultimi ne rapprentano il reale valore intrinseco, sicché il giudizio di ammissione o di riprovevolezza del comportamento dell’insider dipende dalla verifica se lo sfruttamento di notizie riservate contribuisce o meno all’efficienza del mercato, se accresce o pregiudica l’efficienza informativa del mercato. Sul punto non vi sono chiare evidenze scientifiche sul fatto che l’uso di informazioni riservate pregiudichi la trasparenza del mercato, impedendogli di perseguire l’efficienza informativa. Un secondo motivo di riflessione è che la scelta di reprimere il fenomeno dell’i.t. non può addivenire al risultato di ingessare il mercato privandolo del contributo essenziale dato, alla propria efficienza informativa, dall’attività di ricerca, studio ed analisi. Se, come si ritiene, si deve privilegiare una concezione del mercato come luogo la cui funzione principale è quella di elaborare e produrre informazioni che si riflettano sul meccanismo di determinazione dei prezzi per favorire, in ultima istanza, l’investimento del risparmio nel capitale delle imprese, ne consegue che va incoraggiato il lavoro degli analisti che producono e divulgano informazioni, anche consentendo loro di sfruttare economicamente dette informazioni perché altrimenti verrebbe a mancare lo stimolo alla ricerca, all’analisi ed alla diffusione delle stesse. L’attività di produzione, diffusione e sfruttamento delle informazioni va difesa ed incentivata rappresentando l’ossatura del mercato finanziario, che deve pertanto rifuggire da ogni mozione di livellamento informativo e di concorrenza perfetta tra gli investitori propria del market egualitarism, riconoscendo invece che la speculazione - intesa come ricerca di un profitto eccedente quello medio di mercato - è la caratteristica saliente ed ineliminabile di ogni sistema finanziario basato su un’economia di scambio. 6.4. Resta, sullo sfondo, l’unico possibile profilo di criticità che si ritiene possa anche esaurire un’eventuale ragione incriminatrice: è giusto riconoscere il diritto di sfruttare economicamente le price sensitive anche a coloro che non hanno contribuito alla loro produzione ed analisi, ma che ne sono venuti a conoscenza in modo occasionale ed estemporaneo, in virtù della carica societaria ricoperta all’interno della società emittente? La logica, prima che il diritto, ci porta ad affermare che il possessore di informazioni privilegiate ha il diritto di utilizzarle se, per ottenerle, ha sopportato un costo di produzione tanto da esserne divenuto proprietario (è il caso degli analisti finanziari), mentre i managers e gli altri insiders aziendali non possono considerarsi acquirenti dell’informazione essendone entrati in possesso in modo del tutto casuale ed in virtù della sola carica ricoperta. Di qui la conclusione per cui l’obiettivo di una regolamentazione anti insider trading (a livello non solo penale) deve essere il contenimento e il contrasto di quelle forme di speculazione abusiva originate dall’approfittamento di una situazione di superiorità informativa, che ricorrono nel solo caso in cui l’informazione riservata sia stata acquisita senza sostenere alcun costo e solo attraverso un collegamento privilegiato con la società emittente. Resta tuttavia l’interrogativo di fondo se lo strumento, per così dire di contenimento e di contrasto a pratiche di siffatta natura, debba essere rappresentato dalla sanzione penale. Il quesito merita una risposta negativa, per una ragione prima fra tutte: l’impiego della strumentazione penalistica deve escludersi ogni qual volta il divieto non presenti un chiaro ed evidente fondamento economico e faccia difetto l’esistenza di un determinato ed afferrabile oggetto giuridico. Non solo, infatti, il divieto di i.t. non è sorretto da una lucida motivazione economica, anche per la debole confutazione che si è fatta degli argomenti che sostengono gli effetti benefici dell’i.t. sul mercato, ma nella fattispecie incriminatrice non è dato neppure rintracciare un bene giuridico materialmente afferrabile e socialmente consolidato. Non è un caso che, nelle intenzioni del legislatore, il divieto di i.t. miri a sanzionare il comportamento ritenuto immorale di chi lo tiene (unfairness), allo scopo di rassicurare gli investitori sulla eticità e correttezza delle contrattazioni di borsa ed incoraggiarli così ad operare. Salvo poi chiamare in causa, nel tentativo di conferire un’oggettività giuridica ad una scelta incriminatrice decisa a priori prescindendo da essa e per obiettivi che attengono al piano dell’etica e della moralità, interessi generali connessi al buon funzionamento ed all’efficienza del mercato, alla sua trasparenza, alla parità di condizioni tra gli investitori che, pur rappresentando valori positivi da promuovere e da difendere, restano pur sempre obiettivi etico-moralistici privi di quei requisiti di materialità, afferrabbilità, consolidamento, tali da poter essere fatti oggetto di un giudizio di meritevolezza e di necessità della pena. 6.5. Ritornando all’impostazione concettuale da cui siamo partiti, si è detto, in chiave riformatrice, che la struttura del sistema penale degli intermediari finanziari dovrebbe essere rappresentata dalla tutela delle funzioni di vigilanza, limitando tuttavia il ricorso alla sanzione penale ai casi in cui detta tutela è prodromica a difendere, o l’interesse del risparmiatore ad una corretta allocazione delle risorse patrimoniali affidate in gestione, o l’interesse pubblico a proteggere il mercato finanziario da fattori esogeni di disturbo ed alterazione. Il fenomeno dell’i.t. non si pone in relazione di danno o di pericolo con nessuno dei due interessi succitati. Non con l’interesse pubblicistico atteso che, a differenza del riciclaggio e dell’aggiotaggio, dell’i.t. non è stata affatto provata la sua dannosità per il mercato, se non adducendo motivazioni di ordine etico e morale che tuttavia, quando rappresentano il solo fondamento del divieto, piegano il diritto penale ad una funzione simbolica, pedagogica ed eticheggiante, estranea alla cornice costituzionale dell’ordinamento. Tanto che la vigente norma penale di incriminazione dell’i.t. è stata qualificata da alcuni esponenti della dottrina come una “norma manifesto”, che vieta perché deve convincere il risparmiatore del fatto che il mercato è pulito, trasparente, è un luogo in cui le contrattazioni avvengono lealmente. Si dirà di più. Con la riforma del 2005 il legislatore, se per un verso si è spinto fino a prevedere una sanzione draconiana per il fatto di i.t., per altro verso è pervenuto alla decisione di depenalizzare i fatti di i.t. compiuti dai c.d. insiders secondari. Ma se l’obiettivo di fondo è quello di difendere l’integrità, l’efficienza e il buon funzionamento del mercato finanziario e la fiducia dei risparmiatori, perché depenalizzare dei fatti comunque muniti - se ci si pone nell’ottica, non condivisa da chi scrive, del legislatore - di quelle potenzialità aggressive tali da meritare comunque una risposta sanzionatoria penale? La depenalizzazione di siffatta forma di insider trading (c.d. tippee e tuyautage trading) è infatti sufficiente ad ingenerare il dubbio su quale sia l’oggetto giuridico che il legislatore intende tutelare: va sempre ravvisato nella trasparenza, nell’efficienza e nel corretto funzionamento del mercato finanziario e nella fiducia degli investitori sull’integrità del medesimo (ma se così fosse, non si coglie il perché della non punibilità di chi, assunte informazioni privilegiate da soggetti qualificati, le diffonde e le usa a proprio profitto: condotta, questa, al pari delle altre, capace di pregiudicare il bene ultimo della trasparenza e integrità del mercato), oppure - più modestamente - la volontà legislativa è quella di punire chi è tenuto a doveri fiduciari di riservatezza per la posizione ed il ruolo qualificato rivestito all’interno (o nei confronti) della società emittente? Si ritiene meritevole di accoglimento la seconda ipotesi. La parziale abolitio criminis realizzata sul previgente art. 180 D.lgs. n. 58/1998 ha comportato un parziale mutamento dell’interesse tutelato dalla fattispecie in esame, perché, riducendo l’ambito di rilevanza penale della fattispecie - ossia abolendo l’ipotesi del c.d. tippee trading -, ha ridisegnato i contenuti dell’interesse tutelato, identificandolo più nella lesione di un interesse privatistico rappresentato dall’inosservanza di un dovere fiduciario tra l’insider e la società emittente, piuttosto che nella difesa di un interesse pubblicistico - in ogni caso a parere di chi scrive poco afferrabile - costituito dall’integrità dei mercati e dalla fiducia degli investitori, istituzionali e non. Ma se così è, ci sembra del tutto sproporzionato, oltre che in spregio al canone di sussidiarietà, il ricorso alla sanzione penale. 6.6. Del pari, non sembra condivisibile l’assunto secondo cui l’i.t. rappresenterebbe unaa minaccia per l’interesse del risparmiatore alla corretta allocazione dei propri investimenti, giustificando il ricorso alla sanzione penale in ragione della lesione che il fenomeno de quo arrecherebbe al patrimonio conoscitivo dell’investitore. Il mercato finanziario è senza dubbio un luogo giuridico che va regolamentato e dove l’informazione esercita un ruolo fondamentale. L’efficienza allocativa del mercato presuppone la sua efficienza informativa. Quest’ultima richiede che gli investitori possano poter contare sulla massima quantità possibile di informazioni, che queste vengano diffuse e fatte circolare nella maggiore quantità e con la maggiore tempestività possibili. Il mercato finanziario è profondamente influenzato dalle informazioni e dal sentiment sui più svariati temi macro e micro economici, relativi al sistema Paese come alla singola società emittente, capaci di incidere ed impattare sull’andamento borsistico di un determinato titolo. E questo perché l’investimento nel mercato finanziario è sostanzialmente speculazione e - per citare Keynes nella sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta - “la speculazione è la capacità di scoprire cosa l’opinione media ritiene che l’opinione media sia”. I canali attraverso i quali l’informazione viene reperita, elaborata, creata, analizzata e poi diffusa, sono tanti e diversi, la loro efficacia è legata a così tante variabili - costi di investimento sostenuti per l’attività di ricerca e studio, capacità di analisi ecc.. - che il configurarsi di situazioni di vantaggio o svantaggio informativo è condizione fisiologica propria del mercato e della sua dimensione speculativa e competitiva, tanto da rifiutare ogni logica propria della teoria del c.d. market egualitarism. Nel caso dell’insider trading, come detto, la sola nota di criticità che può legittimare un intervento sanzionatorio è data dall’ipotesi in cui il vantaggio informativo viene conseguito sfruttando, abusando della posizione fiduciaria rivestita in seno alla società emittente e, quindi, senza sostenere i costi correlati all’acquisizione o alla produzione dell’informazione. In tale ipotesi, l’asimmetria informativa non è il risultato dell’opera di ricerca di un analista, ma di una forma vera e propria di abuso funzionale ad una successiva speculazione, non compensata da un investimento iniziale. Appare pertanto corretta la distinzione tra informazioni ottenute sostenendo costi di investimento ed informazioni conseguite a costo zero in virtù di una rendita di posizione: le prime devono essere sottratte all’obbligo di disclosure; per le seconde è corretto stabilire un divieto di utilizzo perchè, se utilizzate e sfruttate, realizzerebbero una ripartizione dei costi economicamente inefficiente, favorendo lo speculatore, a discapito di chi l’informazione l’ha prodotta. Ora, se non si può non convenire sul fatto che le informazioni del secondo tipo non possano essere utilizzate e che dunque debbano essere eliminate o neutralizzate le asimmetrie informative che non sono espressione di un’attività di ricerca e di investimento, si è per contro scettici sull’utilità del ricorso alla sanzione penale per perseguire tale obiettivo. Un punto fermo del percorso logico-argomentativo che si intende sviluppare è il seguente: scevri dalle enunciazioni di principio a sfondo etico-moralistico, il solo ed unico schema economico cui poter ricondurre il divieto di i.t. è quello dell’asimmetria informativa e degli effetti che la stessa - nell’ipotesi in cui sia il risultato di una speculazione abusiva e non di un investimento - può produrre sul piano allocativo e distributivo delle risorse. Gli effetti distorsivi generabili da un dislivello informativo, frutto di una condotta di abuso di posizione, sono sostanzialmente due. Da una parte, quello che porta i risparmiatori/investitori a richiedere un rendimento più elevato a fronte di un rischio che aumenta oltre la normale alea dell’investimento, appunto in ragione della presenza di un fattore estraneo allo stesso rappresentato dall’esistenza di una superiorità informativa, dall’agire di operatori insider. Dall’altra, quello per cui la pratica di insider trading è un modo per estrarre benefici privati sfruttando informazioni di proprietà della società emittente, fenomeno tanto più negativamente impattante sull’immagine del mercato quanto più questo sia composto da società proprie di un capitalismo familiare con meccanismi di governance sbilanciati a favore degli azionisti di controllo. Di qui, la considerazione per cui troppo insider potrebbe nuocere al mercato ed il conseguente auspicio che il fenomeno venga regolato al fine di contenere o neutralizzare i due effetti negativi che ne possono derivare. Poiché entrambi i succitati effetti vedono come danneggiato finale la società emittente, la quale è la sola proprietaria delle informazioni price sensitive, ecco allora che la questione relativa alla regolamentazione dell’insider trading diventa una questione di regolamentare l’uso dei diritti di proprietà sull’informazione. L’assunto poggia su due presupposti meritevoli di adeguata verificazione. 6.7. Il primo è che l’informazione è un bene economico, idoneo ad essere sfruttato economicamente da chi ne è proprietario. Non possiamo certo trascurare l’antico ed ancora non sopito dibattito sulla natura giuridica del bene “informazione”, in particolare se questa sia qualificabile come bene privato o come pubblico. Secondo una prima teoria, l’informazione è un bene pubblico che non può essere oggetto di proprietà privata, configurandosi come un bene indivisibile e non escludibile: l’indivisibilità sarebbe legata al fatto che ogni individuo può utilizzare l’informazione senza sostenere alcun costo aggiuntivo; la non escludibilità discederebbe dalla difficoltà di circoscrivere la cerchia dei soggetti che se ne possono appropriare, ovvero dalla difficoltà di apporre vincoli di riservatezza. Sul versante opposto si schierano quegli economisti che sostengono la divisibilità e l’escludibilità dell’informazione, ritenendo che l’accesso al bene può essere circoscritto e che, pertanto, è possibile appropriarsi a pagamento dei suoi vantaggi, acquisendone così la titolarità prima che l’informazione diventi pubblica. E’ chiaro che il riconoscimento al bene informazione di una natura pubblica o privata si riflette sulla definizione dell’assetto regolamentare che ne deve disciplinare la produzione, l’uso e la divulgazione. Se aderissimo alla tesi liberista - per cui l’informazione è un bene che può essere fatto oggetto di proprietà privata -, addiverremo a respingere qualsivoglia intervento esterno di regolamentazione dei meccanismi di produzione e circolazione dei flussi informativi, che i sostenitori di questa tesi ritengono controproducenti perché aventi l’effetto di scoraggiare la produzione di nuove informazioni, riducendo in tal modo il contributo dell’informazione al miglioramento della capacità segnaletica dei prezzi. Se, per contro, riconoscessimo all’informazione la qualifica di bene pubblico, si dovrebbe ammettere un impianto regolamentare ispirato alla logica del market egualitarism, caratterizzato da obblighi di disclosure e dal divieto di insider trading in capo agli operatori. Una posizione intermedia è quella per cui l’informazione è un bene privato che, tuttavia, genera delle esternalità, degli effetti aventi ricadute su soggetti esterni e sul mercato in generale, assommando in sé - il riferimento è nello specifico all’informazione societaria - esigenze di riservatezza (proprie del soggetto proprietario che quelle informazioni ha creato e prodotto) ed obblighi di trasparenza verso il mercato a tutela della comunità di investitori. Di qui la necessità di predisporre un sistema di regole che possa contemperare questi due termini del contendere. Con il risultato, innanzitutto, di ammettere che chi crea e produce l’informazione risulti anche assegnatario esclusivo del diritto di sfruttarne economicamente il contenuto (un diritto che non può essere negato, pena l’inefficiente allocazione delle risorse ed il conseguente scoraggiamento dell’attività di analisi e ricerca, condicio sine qua non per un mercato finanziario efficiente e trasparente). Prevedendo, in secondo luogo, un sistema di tutele per il proprietario dell’informazione e per il mercato in generale, avverso quelle possibili esternalità negative derivanti da comportamenti di terzi che, abusando della posizione rivestita, facciano un uso scorretto dell’informazione price sensitive. 6.8. Quanto al secondo presupposto, si è sostenuto che i diritti di uso e sfruttamento delle informazioni devono essere assegnati a chi quelle informazioni le ha create attraverso un’attività di ricerca ed analisi ovvero, nel caso di informazioni già esistenti in seno alla società emittente, a questa stessa. Non si può d’altronde negare che gli effetti negativi dell’i.t., poco sopra delineati, vanno ad impattare proprio sulla società emittente in termini di deprezzamento del pricing del relativo titolo quotato, che, proprio perché sospettato di essere oggetto di operazioni insider, vedrà gli investitori disposti ad acquistarlo solo a fronte di un premio aggiuntivo (implicitamente espresso nella disponibilità ad acquistare a prezzi che scontino l’effetto insider). L’informazione, però, a differenza degli altri beni che vengono prodotti e consumati, viene scoperta, e quindi diffusa, tramite la trasmissione o divulgazione al mercato, la quale, tuttavia, se da un lato incrementa il livello informativo del mercato e dunque la sua efficienza, dall’altro riduce le opportunità di profitto per chi ha creato quell’informazione. In altri termini: la divulgazione del bene-informazione è, al tempo stesso, fattore di trasparenza ed efficienza allocativa del mercato e disincentivo alla produzione delle informazioni, perché riduce in capo a chi le ha prodotte la possibilità di estrarne profitto. Da questo tratto peculiare dell’informazione nasce una sorta di conflitto, di trade off tra produzione ed uso dell’informazione: la regolamentazione di questo trade off, si ritiene, debba rappresentare l’obiettivo esclusivo di una normativa anti-insider. Un obiettivo che si ritiene debba essere perseguito per mezzo di un sistema regolamentare fondato su alcuni punti chiave: i diritti di proprietà sul bene informazione devono essere assegnati alla società emittente ovvero a chi, sostenendo costi di investimento e di ricerca, ha creato e prodotto l’informazione; una ridefinizione della normativa sulla trasparenza societaria, che sappia più efficacemente coniugare l’esigenza dell’emittente di tutelare istanze di riservatezza e l’interesse del mercato alla divulgazione delle informazioni; obbligare le società emittenti a dotarsi al proprio interno di processi operativi finalizzati alla mappatura delle informazioni e alla disciplina sull’uso, sulla trasferibilità e sulla divulgazione delle medesime, acconsentendo che il diritto allo sfruttamento economico di esse venga trasferito esclusivamente a managers e dipendenti della società e non a soggetti terzi, perché questo impedirebbe di esercitare un controllo sull’uso del flusso informativo e sulla profittabilità dell’attività (autorizzata) di insider. Quanto, infine, all’aspetto repressivo, si ritiene che qualsivoglia forma di sfruttamento non autorizzato di informazioni societarie, ovvero con modalità difformi dal sistema adottato di compliance aziendale, dovrebbe esporre l’autore della violazione a sanzioni di tipo civilistico a tutela della società e dei suoi azionisti ma anche del mercato in generale, abbandonando in questo modo lo strumento penalistico. Si ritiene, a tale riguardo, che il diritto degli investitori ad operare in un mercato integro possa trovare adeguata ed efficiente tutela, non nella sanzione penale - per i limiti e le tensioni che la caratterizzano - , quanto piuttosto in rimedi privatistici esperibili nei confronti dell’insider dalla società emittente, tanto nell’interesse proprio e dei suoi azionisti (per il danno che il comportamento insider reca all’immagine della società e per l’impatto sull’andamento del titolo in termini di liquidità, pricing e percezione di una sua maggiore rischiosità), quanto anche nell’interesse del mercato e dei risparmiatori quale ente esponenziale che più rappresenta l’interesse diffuso alla stabilità del mercato, alla sua efficienza (intesa primariamente come remunerazione delle sole informazioni privilegiate ottenute sostenendo un costo di investimento e non per mero abuso di posizione) e al fairness (per la funzione di rassicurare gli investitori sulla trasparenza ed il buon funzionamento del mercato). Facendo peraltro coesistere sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza, sia nei confronti delle società emittenti e degli esponenti aziendali per inosservanza dei sistemi interni di compliance disciplinanti la produzione e l’uso delle informazioni sensibili, sia nei confronti degli autori di condotte di tipping e tuyautage. In conclusione, muovendo dall’assunto secondo cui lo scopo di una disciplina sull’insider trading deve essere identificato nella prevenzione e nel contrasto di quelle forme di abuso di situazioni di vantaggio informativo, e comprovata l’ineffettività e difformità costituzionale della via penale, non resta che accogliere la soluzione che impone, in primis, di revisionare i meccanismi societari di produzione, uso e divulgazione delle informazioni price sensitive, in nome di una maggiore trasparenza sulla titolarità del diritto di sfruttamento delle stesse e di una maggiore responsabilizzazione degli amministratori, agendo sul piano della corporate governance e sui programmi di compliance aziendale. In secundis, combinando un enforcement fatto di sanzioni e rimedi civilistici (nei termini meglio specificati nel prosieguo) esperibili dall’emittente nei confronti dei soggetti insiders, nonché di sanzioni amministrative irrogabili dagli Organismi di vigilanza contro l’emittente (per la mancata inosservanza dei programmi di compliance sull’uso delle informazioni societarie) e gli insiders societari e non, all’esito di un’attività di indagine e di controllo che si auspica possa essere rafforzata e resa più incisiva. Nella convinzione che la pratica di i.t. lede in modo diretto la società emittente deprezzandone il titolo e gli investitori che su quel titolo operano e che potrebbero risultare danneggiati dal dislivello informativo, di talché l’unico rimedio efficiente per il contenimento di siffatta pratica è quello di prevedere, a carico dell’insider autore della condotta di abuso, un costo aggiuntivo (dato ad es. ma non solo dalla restituzione del profitto conseguito sfruttando la notizia riservata) tale da rendere l’abuso, se scoperto, economicamente inutile o addirittura svantaggioso. Nella convinzione che la maggiore responsabilizzazione di chi riveste posizioni di vertice all’interno delle società emittenti, congiuntamente all’adozione di un sistema di autodisciplina che renda trasparente l’uso delle informazioni rilevanti e l’assegnazione dei vantaggi insiti nel loro sfruttamento, costituisca il maggior antidoto all’opacità ed all’inefficienza del mercato. 7. Occorre poi prendere contezza del fatto che qualsivoglia progetto di riforma dell’ordinamento finanziario e di revisione degli strumenti di tutela del risparmiatore che si intenderà mettere in cantiere, non porterà i risultati attesi, se non sarà accompagnato da quel plesso di riforme dei vari apparati tangenti e complementari all’organizzazione del mercato finanziario: la riforma dell’amministrazione della giustizia per assicurare, anche istituendo una magistratura specializzata, tempi rapidi nell’accertamento degli illeciti e nell’irrogazione delle sanzioni; nuove regole in materia di informazione societaria al fine di migliorare la trasparenza informativa; l’introduzione di sistemi di governance più chiari ed indipendenti, capaci di presidiare e risolvere le tante, troppe, situazioni di conflitto di interesse di cui oggi è intrisa la catena dell’intermediazione finanziaria e che rappresentano, ad un tempo, la molla dell’agire economico nel mercato capitalistico e la principale causa di disgregazione e polverizzazione di ricchezza; regole chiare sulla circolazione dei prodotti finanziari; un ridisegno generale dei sistemi di controllo, vigilanza e di revisione contabile all’interno delle società di intermediazione del risparmio; da ultimo, ma non certo per ordine di importanza, un intervento correttivo della disciplina del c.d. falso in bilancio, che rappresenta a tutti gli effetti un presidio a tutela del risparmiatore. Senza queste riforme complementari, anche una buona legge di riforma del mercato finanziario non coglierebbe appieno il risultato sperato. E’ chiaro, infatti, che il mercato, come pure il suo grado di efficienza e trasparenza, sono il risultato della convergenza di una pluralità di fattori, esogeni ed endogeni, che agiscono su piani diversi ed incidono su differenti meccanismi di funzionamento del mercato stesso, cercando il non facile equilibrio tra i valori in gioco. 8. La ri-configurazione di un nuovo assetto di regolamentazione del mercato finanziario è condizione necessaria ma non sufficiente per alimentare un processo di prevenzione generale e di orientamento dei modelli comportamentali, che possano rappresentare un efficace argine al dilagare dei fenomeni di market abuse e di market failure. Serve, in parallelo, anche un processo di revirement culturale che porti ad una sorta di rifondazione etica della business comunity, nella consapevolezza che anche il migliore sistema normativo non ha presa sulla realtà effettuale, se questa non è a priori innervata da un insieme di regole etiche generalmente condivise. Il contesto attuale mostra un mercato finanziario caratterizzato dall’assenza di regole di condotta e di principi tali da costituire un governo etico, prima che giuridico, al lavoro dei suoi operatori. La grande ondata di deregolamentazione finanziaria che si è avuta nell’ultimo decennio ha favorito il dilagare dei conflitti di interesse in cui si trovano ad operare gli intermediari finanziari. Si pensi, per fare qualche esempio tra i tanti, al caso delle banche che hanno collocato ai propri clienti titoli tossici presenti nel loro portafoglio, al fine di dismetterli evitando perdite già prevedibili al momento del collocamento; agli effetti perversi del sistema degli incentivi ai vari operatori presenti nella catena dell’intermediazione finanziaria, che hanno favorito la diffusione di pratiche ad elevato rischio pur di conseguire l’obiettivo di lauti compensi; senza dimenticare il caso delle società di rating che hanno senza dubbio concorso a favorire l’occultamento di situazioni di difficoltà, attribuendo giudizi “a tripla A” a società che di lì a poco sarebbero state dichiarate fallite. La cultura di illegalità diffusa e di abuso di cui oggi è permeato il sistema del risparmio gestito va contrastata, non con norme cariche di una minaccia sanzionatoria severissima ma con bassa probabilità di trovare un’effettiva ed efficace applicazione, bensì con una revisione normativa ad ampio spettro, funzionale ad assicurare maggiore trasparenza nei meccanismi di corporate governance, razionalizzazione e rafforzamento del sistema dei controlli interni ed esterni alle società. Una considerazione è d’obbligo: la causa prima dei tanti, troppi, dissesti finanziari che hanno provocato nell’ultimo ventennio una dispersione gigantesca di ricchezza collettiva è da individuare nei conflitti di interesse di cui è profondamente permeato l’ordinamento societario, finanziario ed istituzionale, tanto da far affermare, all’illustre Guido Rossi, che “il risparmio di massa galleggia letteralmente sui conflitti di interesse e la sua salvaguardia dipende, anzitutto, dalla corretta impostazione di tali conflitti, la cui esistenza è peraltro fisiologica all’agire economico”. Occorre pertanto ripartire dal male oscuro dell’ordinamento finanziario, lavorando ad una revisione dei meccanismi di corporate governance, dei processi decisionali interni alle società, troppo spesso affidati ad amministratori che agiscono alla stregua di monarchi assoluti, al di sopra ed a prescindere da ogni forma di controllo. Nel procedere in quest’opera di riscrittura delle regole del gioco, è corretto immaginare che il primo intervento del diritto nell’ambito economico e dell’impresa debba avvenire sul piano della prevenzione, avvalendosi degli strumenti propri del diritto civile, del diritto amministrativo e dell’autoregolamentazione. Arrivando, per questa strada, alla configurazione di un diritto penale minimo ma efficace e severo, nel sanzionare quei comportamenti ritenuti immediatamente offensivi di quegli interessi meritevoli di protezione, perché in diretta e stretta relazione con la tutela della funzione di vigilanza, epicentro del complesso normativo a difesa del risparmio.
  • XXI Ciclo
  • 1972

Date

  • 2010-04-19T13:54:57Z
  • 2010-04-19T13:54:57Z
  • 2010-04-16

Type

  • Doctoral Thesis

Format

  • application/pdf
  • application/pdf
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Identifier