• Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas
  • Nodari, Francesca

Subject

  • pensiero incarnato
  • Levinas
  • prendere sul serio il tempo
  • aver bisogno dell'altro
  • Husserl
  • Stein
  • essere-con-il-proprio-corpo-ostaggio-per-l'altro
  • bisogno
  • Rosenzweig
  • godimento
  • eros
  • desiderio
  • carezza
  • sofferenza
  • morte
  • paternità
  • maternità
  • desiderio
  • carezza
  • filialità
  • fecondità
  • tempo
  • temporalizzazione
  • prigionia
  • felix culpa
  • Heidegger
  • Rodin
  • "nascibilità"
  • FILOSOFIA
  • M-FIL/01 FILOSOFIA TEORETICA

Description

  • 2009/2010
  • Obiettivo di questa ricerca è il tentativo di far emergere come si dà il problema del pensiero incarnato nelle opere di Emmanuel Levinas, avvalendosi di quel metodo fenomenologico ermeneutico, immanente ai testi, che intende portare a datità e interpretare, non solo il non-detto circa l’incarnazione, ma muovere da un’opera che riteniamo centrale: i Carnets de captivité , che si sono rivelati, sin da subito, come una sorta di cartina di tornasole per l’orientamento dell’intera ricerca. Ma procediamo con ordine. Per arrivare alla visione intellettiva del soggetto di carne e di sangue che ritroviamo in Levinas, è stato necessario passare, se così si può dire, attraverso quello che riteniamo possa essere definito come un lavoro preparatorio alla trattazione dell’ «io sono» incarnato. Ci stiamo riferendo al saggio Il problema dell’empatia di Edith Stein, allieva di Husserl. Studio nel quale la filosofa avvicina la problematica del coglimento dell’altro attraverso quel «rendersi conto» che poggia su due elementi portanti: la differenza che già in questo saggio trapela tra Körper (corpo oggetto) e Leib (corpo proprio) e il tentativo di pervenire all’altro attraverso l’Einfühlung, situazione in cui si tratta di vivere un vissuto originario dal contenuto non originario. Potremmo dire che ciò che resta sotto forma di adombramento nell’elaborazione steiniana, conosce un suo ulteriore, decisivo sviluppo nella quinta delle Meditazioni cartesiane di Edmund Husserl. Meditazione in un cui, appunto,l’ego trascendentale non può ridurre a sé ciò che si trova nella propria sfera primordinale, in quanto si tratta di un Leib come è lui, che può cogliere soltanto attraverso l’appaiamento. La novità che sottende questa nuova visione intellettiva è il fatto che emerge chiaramente come, per pervenire all’esperienza dell’altro, si debba passare attraverso la problematizzazione del corpo di colui che è un’unità psichica come me e che non posso ridurre a me. Levinas sembra partire proprio da Husserl, per andare oltre Husserl stesso, per avviare e porre le fondamenta della sua visione intellettiva di un «io sono» mortale, finito, corporeo. Due ci paiono le premesse che sottendono questo iniziale sviluppo del pensiero incarnato: in primis, lo studio fondamentale della sensazione che prende avvio dalle Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo di Husserl. Una rilettura che spinge Levinas a fondare nella temporalità della stessa intenzionalità la passività, che è data con la dipendenza dell’atto intenzionale dalla sensazione. Un aspetto decisivo per intendere la trascendenza del soggetto ovvero quell’andare oltre sé, che certo non si può dare per un ego trascendentale. Di qui emerge la seconda premessa fondamentale: la necessità di restituire al soggetto la propria storicità, il fatto che sia indispensabile andare oltre la sfera totalitaria e a-storica dell’ego trascendentale, ove il suo essere finito e il suo permanere nel timore costante della morte non potrebbero mai essere colti. Deflagrazione della totalità, timore della morte: istanze rosenzweighiane sottoscritte da Levinas per questa sua elaborazione di un pensiero incarnato che interessa e attraversa tutte le sue opere, sin dagli scritti giovanili. Un fil rouge che trova uno dei suoi capisaldi in quell’officina filosofica che sono i Carnets de captivité. Non a caso, il nostro sforzo fenomenologico-ermeneutico prende avvio proprio da questi frammenti, che Levinas appuntò nei suoi giorni di prigionia. L’impressione iniziale, che si è tradotta in evidenza nel corso dell’analisi e della lettura dei passi di quest’opera inedita, consiste nel fatto che emergono tematiche che sono, addirittura, in grado di chiarire passaggi contenuti nelle opere successive, passaggi che non riteniamo azzardato affermare contenessero del non-detto da esplicitare ulteriormente. Si pensi, soltanto, alla teoria del besoin, attraverso la quale Levinas esplica le sue intuizioni sul ruolo fondamentale della sensazione e su ciò che lui stesso definisce come una transitività della coscienza. Nell’intervallo del bisogno, in cui il soggetto si trascende verso un fuori, in cui il datum hyletico nella sua connotazione ante predicativa e pre-riflessiva segna la passività della coscienza, si dà il primo evento della trascendenza. Trascendenza di un’esserci incarnato che, nella sua relazione con un fuori, constata il proprio stato di bisognosità, che è passività, coscienza bouleversé. Tuttavia, se per un verso, l’intervello del bisogno – fondato sul binomio besoin-spazio – è un intervallo sempre superato, ad esso, se ne contrappone un altro mai superabile e fondato sul binomio eros-tempo. Nella stessa teoria del besoin, poi, Levinas giunge a problematizzare il concetto stesso di bisogno, che nella sua connotazione, se così si può dire, difettiva rinvia a quel «troppo pieno dell’essere», dal quale è necessario «svignarsela». Assistiamo, dunque, nei Carnets ad una vera e propria elaborazione in nuce delle categorie chiave che segnano la sua riflessione: bisogno, godimento, eros, desiderio, carezza, sofferenza, morte, paternità, maternità, filialità, fecondità. Categorie che diventano, via via, il paradigma attraverso il quale declinare l’incarnazione dell’ «io sono» mortale e finito che si trova nella tensione costante tra dramma e compimento. Una tensione drammatica e al tempo stesso costitutiva del Dasein incarnato, se è vero che – proprio come ebbe modo di esperire Levinas nella sua terribile condizione di prigioniero, condizione in cui perviene ad un’epoché esistenziale, ad un essere solo con Dio, nel quale gli si fa presente la cifra del suo «io sono»: la felix culpa – il soggetto incarnato è colpevole di divenire autentico, colpevole di una colpa pre-etica e pre-morale che lo mette dinnanzi alla necessità del doversi decidere ad iniziare-qualcosa-con-stesso. Il «dovere felice» di amare l’altro, questo teologumeno interpretato da Levinas in maniera pre-cristiana, si precisa, di opera in opera, come quella sfida che sottende l’esistenza a tempo del soggetto incarnato e che squarcia, per sempre, il cielo paradisiaco che sovrasta la jouissance del Moi. E se, attraverso l’atto d’inserzione nell’esistenza – atto attraverso il quale l’ «io sono» si disfa del «finta di niente» dell’il y a – il soggetto diviene un’ipostasi, ossia può dire di poggiare su una base, da qui il Dasein incarnato metterà capo a ciò che Levinas chiama una creazione continua, una Wiedergeburt, una rinascita sottesa alla sua incessante temporalizzazione. È il paradosso dell’autorelatività che pone le condizioni per ciò che abbiamo chiamato il circolo ermeneutico dell’istante. In questo insistente accadere dell’essere eviene il mio incontro con l’altro, si concretizza , o meglio, si specifica l’intendimento del corporalizzarsi del Dasein come di colui/colei che ha bisogno dell’altro o, il che è lo stesso, che prende sul serio il tempo. L’evento della posizione apre al continuo farsi accadere dell’esserci che, si «dis-ingombra da sé», in un movimento di trascendimento – preludio dell’infinition – del proprio «io sono». Trascendimento che non ha sosta, né requie: pena il ritorno del Moi ad Itaca. Pena il cedere alla tentazione del mero «vivere di», di per sé, momento considerato da Levinas non in termini di sprofondamento nell’inautentico, ma del godere di ciò a cui perveniamo passando attraverso l’intervallo del bisogno, scorgendo in quella jouissance la possibilità di allietarsi corporalmente di ciò di cui si può fruire ed esserne, in un certo senso, grati. Tuttavia la tentazione in cui il soggetto può cadere è un rischio al quale l’ «io sono» è costantemente esposto nel suo decidersi, di volta in volta, per l’altro. Ma già in questo mio decidermi ad iniziare-qualcosa-con-me-stesso, mi scopro in una correlazione originaria che abbiamo chiamato, prendendo le mosse dalle illuminati riflessioni di Bernhard Casper, “nascibilità” o Geburtlichkeit. Questa relazione vuol dire – in opposizione ai rapporti pensati nei termini di mera ontologia della sostanza – la dipendenza di me da coloro che mi vollero. In quanto mi vollero, nel contempo, mi consentirono la libertà di essere me stesso, ovvero, mi lasciarono libero di essere qualcuno. In questa situazione io mi trovo, sin dall’inizio, nella condizione di essere debitore a coloro che, attraverso il loro assenso, acconsentirono alla mia nascita. Nel mio «io sono» sono e non sono mio padre, così come sono e non sono mia madre. Nel mio essere figlio è contenuto quel mistero dell’avvenire che fa sì che io sia un «io sono» che inizia, a sua volta, qualcosa-con-se-stesso e insieme assicura a coloro cui è debitore, quel tempo senza di loro, in cui io stesso sono chiamato ad assumere quel «dovere felice» di amare l’altro usque ad mortem. Di qui l’indispensabilità del mio temporalizzarmi fino a «morire la morte dell’altro», fino a scorgere nell’acre piacere della sofferenza, la possibilità di trasformare la sofferenza inutile in una sofferenza non inutile, il cui-in-vista-di-cui-finale è la salut. Da questo accostamento fenomenologico-ermeneutico dei testi scaturisce l’articolarsi di un pensiero che fa tutt’uno con «il nodo gordiano del corpo» e che rinviene, nell’essere-ostaggio-con-il-proprio-corpo-per-l’altro, l’accadimento stesso dell’incarnazione e la sfida fondamentale cui ha da rispondere ogni soggetto che intenda cominciare-qualcosa-con-se-stesso. Levinas, andando al di là dell’ego trascendentale e a-storico della quinta meditazione cartesiana e al di là del Dasein disincarnato di Essere e tempo e della comprensione del corpo nei meri termini di essere-nel-mondo contenuta nei Seminari di Zollikon, guadagna una visione intellettiva che supera quella di Husserl e di Heidegger. Pensare come pensiero incarnato implica il darsi di un «io sono» che si fa garante-con-la-propria-vita-per-l’altro attraverso la fecondità – categoria che da biologica si fa ontologica –, in vista della salvezza. Francesca Nodari
  • XXIII Ciclo

Date

  • 2011-05-16T13:36:47Z
  • 2011-05-16T13:36:47Z
  • 2011-04-27
  • 1978

Type

  • Doctoral Thesis

Format

  • application/pdf

Identifier